martedì 21 agosto 2018

I grandi incipit della letteratura: Cent'anni di solitudine di G. García Márquez



Voglio riprendere oggi, cari lettori, la tradizionale rubrica del "Lettore di provincia" dedicata ai grandi incipit della letteratura. Lo spirito della rubrica è sempre lo stesso, quello di proporre le prime battute di un capolavoro della letteratura mondiale che, per diverse ragioni, ha entusiasmato i lettori attraverso le generazioni. Classici tra i classici, che molti di voi avranno già letto integralmente, ma che fa sempre piacere riprendere in mano. Un invito alla lettura caloroso, invece, per chi ancora non ha avuto l'occasione di sfogliarli.
Oggi vi propongo "Cent'anni di solitudine" di G. García Márquez. Pubblicato nel 1967, scritto nell'arco di 18 mesi, ma meditato per 15 anni, è un libro complesso, ma con i tratti tipici del capolavoro. Un linguaggio portentoso e un'invidiabile fantasia sostengono Márquez nella creazione della città di Macondo, vero paradigma della solitudine, che vive e cresce avvinghiata alle vicende della famiglia Buendìa e, in particolare, a quelle del colonnello Aureliano, figura epica e tragica al tempo stesso. 
Spero di avervi invogliato alla lettura. 
A presto per altri #ClassicidaLeggere!


Cent'anni di solitudine

Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendia si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era cosí recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome e per citarle bisognava indicarle col dito. Tutti gli anni, verso il mese di marzo, una famiglia di zingari cenciosi piantava la tenda vicino al villaggio e con grande frastuono di zufoli e tamburi faceva conoscere le nuove invenzioni. Prima portarono la calamita. Uno zingaro corpulento, con barba arruffata e mani di passero, che si presentò col nome di Melquìades, diede una truculenta manifestazione pubblica di quella che egli stesso chiamava l'ottava meraviglia dei savi alchimisti della Macedonia. 
Andò di casa in casa trascinando due lingotti metallici, e tutti sbigottirono vedendo che i paioli, le padelle, le molle del focolare e i treppiedi cadevano dal loro posto e i legni scricchiolavano per la disperazione dei chiodi e delle viti che cercavano di schiavarsi e perfino gli oggetti perduti da molto tempo ricomparivano dove pur erano stati lungamente cercati, e si trascinavano in turbolenta sbrancata dietro ai ferri magici di Melquìades. “Le cose hanno vita propria”, proclamava lo zingaro con aspro accento, “si tratta soltanto di risvegliargli l'anima”.




1 commento:

  1. Grande libro, una trama dal respiro epico con uno stile potente e trascinante. Una lettura indispensabile che ti inchioda fino alla fine.
    Una lettura consigliatissima.
    Ottimo suggerimento e bella rubrica.
    Ciao Massimo

    RispondiElimina