lunedì 20 aprile 2020

Il magico potere del riordino da Marie Kondo a casa mia!


Recensione di Amore Moda e Fantasia



Quanti oggetti abbiamo in casa che ci sommergono, non sappiamo più neanche di averli, nascosti in qualche cassetto o in qualche angolo sperduto della soffitta, o del garage? Siamo sicuri che accumulare roba inutile ci serva veramente?
Noi siamo legati alle cose che ci ricordano quando eravamo bambini, il nostro primo regalo, il nostro primo amore, ma quanto ci servono davvero? Come facciamo a capire quando un oggetto che sia esso una foto, un documento, una maglietta è davvero indispensabile?
Quale stile dovrebbe avere la nostra vita?
La giovane trentacinquenne giapponese Marie Kondo, consulente domestica è l’autrice del bestseller internazionale “Il magico potere del riordino - Il metodo giapponese che trasforma i vostri spazi e la vostra vita”, di Vallardi Editore. Marie Kondo è nota in tutto il mondo per aver inventato il metodo KonMari, metodo di riordino della propria abitazione, o del proprio ufficio, al fine di renderci felici ritrovando la gioia interiore, utilizzando al meglio i nostri spazi. Di recente Marie Kondo è apparsa in televisione su Netflix in un programma di successo proprio sul riordino.
Lei entra nelle case della gente e cerca di aiutarla a sistemare le loro case e le loro vite.
In Giappone riordinare rappresenta una vera e propria cultura che si apprende naturalmente, da autodidatta. Il riordino si apprende con l’esperienza. Organizzare, pulire gli spazi quotidiani deve diventare un’abitudine. Il lavoro è lungo ma non deve scoraggiare, prima o poi bisogna iniziare e facciamolo subito, senza tappe, senza rimandare. Se c’è disordine in casa ci sarà anche disordine nella nostra vita. Bisogna evitare di diventare “accumulatori seriali”.
Riordinare si può, partendo dalle cose a cui siamo meno legati. Riordiniamo per categoria partendo da:
  1. Vestiti (nell’armadio, nei cassetti)
  2. Libri
  3. Documenti
  4. Foto, cose a cui siamo legati da ricordi o emozioni.
Per Marie esistono tre categorie di disordinati: quelli che non sanno liberarsi delle cose, quelli che non sanno dove metterle, ovvero quelli che oltre a non sapersi liberare delle cose non sanno dove metterle. Il 90% dei suoi clienti rientrano nell’ultima categoria. Tu in quale tipologia di disordine ti identifichi?
Se l’ambiente circostante non ci trasmette caos, anche noi trasmetteremo tranquillità.
Le cose che non servono, quelle che non indossiamo più, i libri che non leggeremo mai o che non abbiamo concluso sono da eliminare secondo Marie Kondo. Ma se le cose hanno per noi un significato, ci trasmettono emozioni anche a vederle, indipendentemente dalla loro utilità, allora ci servono, anche solo al nostro animo. Le cose ci devono piacere. È inutile conservare un pantalone vecchio o una maglietta priva di colore o forma per stare in casa, si può essere femminili anche in casa.
Solo eliminando il superfluo, potremo dedicarci a noi stessi e ai nostri cari. Se migliori la tua casa, il tuo lavoro, migliori anche la tua vita affettiva e magari trovi l’amore. Ogni cosa andrà a posto, trovandone la giusta collocazione. Piegare una maglietta, piegare un calzino diventa un’attività divertente con il metodo KonMari. 
In questo periodo di tempo ne abbiamo, iniziamo a riordinare partendo dagli armadi! GO! 
Buona lettura! Mi trovate anche su Amore Moda e Fantasia



sabato 11 aprile 2020

I due soldati (ovvero Pasqua di guerra)

Racconto di don Elio Sidoli


Ogni tanto mi piace proporvi un bel racconto di don Elio Sidoli, già parroco nella Val Vona di Borgotaro. A oltre 25 anni dalla morte, i suoi testi hanno ancora molto da dire. Il racconto che vi presentiamo oggi, "I due soldati (ovvero Pasqua di guerra)", ci sembra proprio richiamare quello che sta accadendo in questi giorni. Quella che stiamo vivendo è una Pasqua anomala, triste, addolorata dai tanti morti che questo virus tremendo sta mietendo nella nostra popolazione. E' una guerra anche questa, in un certo senso. Il racconto è tratto dal libro "I racconti di don Elio" (Ass. Emmanueli), una pubblicazione locale da tempo, purtroppo, esaurita. Buona lettura!


I due soldati (ovvero Pasqua di guerra)


E' il Sabato Santo dell'anno di grazia 1944. Anche quest'anno sarà una Pasqua di guerra. Anche quest'anno Cristo ripeterà la Sua Passione nelle carni straziate dei soldati che combattono ancora, in mezzo ai dispersi senza più guida e speranza, fra quelli che sono fuggiti ai monti e aspettano, soffrendo anch'essi, che il Calvario finisca. Cristo ripeterà la sua agonia anche tra il branco di soldati tedeschi, dai volti arcigni e impenetrabili, che occupano quasi tutte le case della mia parrocchia. É primavera e il pruno si è fatto fiore: domani Cristo risorgerà dai morti, ma è una Pasqua triste lo stesso: adesso sono i giorni del Calvario. La Pasqua verrà: ma quando, ci domandiamo tutti, quando? Ieri sera ho fatto la processione del Venerdì Santo. C'era poca gente: quei pochi che sono rimasti. Donne, vecchi, bambini. Di quelli che sono partiti e ai quali ho stretto la mano, quando sono passati a salutarmi, i più aspettano la Resurrezione sepolti sotto la neve nelle desolate steppe della immensa Russia o sotto le sabbie calde del deserto. Solo qualcuno è tornato. É arrivato di notte come un ladro e di notte è ripartito. Verso i monti: ancora la via del Calvario.
Alla processione di ieri sera erano in pochi e come oppressi da una immensa tristezza.
Il massaro della Chiesa che portava la grande Croce di noce massiccio con su inchiodato un Cristo bizantino che pareva racchiudere nel volto scarno e nelle membra distorte tutti i dolori e le sofferenze di quell'ora, procedeva adagio e pareva appunto l'uomo di Cirene, angariato e costretto a portare la Croce di Gesù. Anche i quattro vecchi che portavano il Cristo morto pareva avessero sulle spalle curve il peso di tutte le miserie e le sofferenze umane, tanto procedevano adagio, quasi di malavoglia, seguiti da poche donne in gramaglie. Abbiamo fatto il giro del paese deserto: abbiamo incontrato branchi di tedeschi, alcuni dei quali si addossavano ai muri e abbozzavano un mezzo saluto; altri, ubriachi, che schiamazzavano in compagnia di ragazzotte senza ideologie e senza morale. Una cerimonia mesta: senza canti, senza spari di mortaretti, triste come un funerale. La gente si è squagliata subito ed io sono rimasto solo nella mia piccola chiesa vuota, davanti al Cristo morto. Anch'io nella speranza della Pasqua.
Ora qualcuno tossiva dalla parte della sacrestia. Era un tossire debole e represso che appena riuscivo a percepire. Ero solo, ma non avevo paura. In quei giorni d'incertezza la paura era un lusso che non ci potevamo permettere. Mi avvicinai e capii subito che si trattava di uno di quelli che stavano ai monti: di quelli che i tedeschi chiamavano “banditi”, gli altri “patrioti”, e noi fratelli. A malapena, illuminata dai riflessi del lumino che bruciava davanti al Tabernacolo, ne potevo osservare la faccia barbuta e gli occhi luccicanti che spuntavano da sotto le sopracciglia cespugliose. “Vorrei confessarmi”, disse. “Domani è Pasqua, se ha un minuto di tempo... sarà una faccenda breve”.
Lo condussi nel campanile (fuori si sentiva il passo pesante e cadenzato della sentinella tedesca che passava e ripassava davanti al portone), si inginocchiò per terra e si confessò. Fece la Comunione e si inginocchiò nel coro con la testa tra le mani.
Aspettavo che si alzasse, quando m'accorsi che qualcuno picchiava contro il portone della chiesa. Era un bussare secco come fa un corpo metallico battuto contro un legno vecchio di millenni. Feci un segno all'uomo del coro che pareva non essersi accorto di nulla e questi scomparve nel campanile. Era un tedesco quello che picchiava contro la porta col calcio del fucile: un giovanotto biondo, con due occhi chiari come l'acqua, con il volto di bambino. Chiuse la porta in fretta, si guardò attorno e venne verso di me. Il soldato, ora, con l'elmetto in mano, mi chiedeva di confessarlo. “Domani è Pasqua”, disse il crucco, “io sono cattolico; ho visto il lume in chiesa e ho pensato che potevo confessarmi”.
Nella sua voce c'era una domanda umile ed incerta, come se temesse un rifiuto. Fu una cosa breve. Dal campanile, intanto, giungeva un tossire fioco e represso dell'altro, ma il tedesco pareva non se ne accorgesse. Andò in coro anche lui e stette parecchio tempo con la testa fra le mani e quando si alzò venne verso di me, dopo essersi aggiustato il fucile a tracolla. “Passi in casa”, dissi io, “prenderà qualche cosa”. Entrò, rimase in piedi finché non gli feci cenno di sedere. Ero passato a benedire le case e avevo delle uova. Nella madia avevo ancora una pagnotta di pane scuro. Misi sulla stufa un tegamino e mentre annegavo due uova nello strutto, mi accorsi che il tedesco mi guardava in modo strano. Mi fissava con uno sguardo triste, come se volesse dire qualche cosa. Ora il soldato si era alzato e veniva verso di me. “Padre, chiami anche l'altro: quello che è in chiesa. Ho visto il suo fucile nel coro e l'ho sentito tossire. Anche lui è un soldato e anche per lui domani è Pasqua”.
Osservavo i due uomini che mangiavano in silenzio quello che la mia miseria aveva preparato. Mangiavano adagio quasi per poter assaporare tutto il sapore del pane scuro che avevano davanti e che tagliavano a piccole fette. I fucili li avevano appoggiati vicini, contro il muro del camino. In aprile, alle quattro del mattino è giorno chiaro. Albeggiava. Ora osservavo il tedesco che colla mano raccoglieva le briciole sparse sulla tavola e se le rovesciava in bocca. Nel fiasco c'era ancora un poco di vino: ma poco. Il crucco prese il fiasco, riempì il bicchiere dell'uomo che gli stava di fronte ed il suo: a metà. Toccarono i bicchieri insieme e si alzarono.
“Buona fortuna”, disse il soldato all'uomo.
“Arrivederci” rispose l'altro. E si salutarono militarmente. Il tedesco uscì per primo: l'altro subito dopo. Mi affacciai sulla porta a vederli partire. L'uomo girò verso il monte e scomparve subito dietro una siepe. L'altro si incamminò verso il centro del paese, con un'andatura stracca ed un passo strascicato che stonava colla sua figura giovanile.












martedì 7 aprile 2020

Borgotaro e le belle tradizioni pasquali di una volta

A cura di Rita Santini




Ci stiamo avvicinando anche quest'anno alla Santa Pasqua, dove si ricorda la morte e Risurrezione di Gesù: è la festa più bella di tutto l'anno per noi battezzati che, credendo e mettendo tutta la nostra speranza in Gesù, ardentemente speriamo che anche noi risorgeremo. Certo, quest'anno sarà una Pasqua un po' triste, costretti a stare in casa per il rischio del contagio e nell'impossibilità di andare in chiesa per festeggiare in modo tradizionale.
Voltandoci indietro al tempo della nostra infanzia, vediamo come si festeggiava l'arrivo della Pasqua allora. Si cominciava il Giovedì Santo, come ora, con la preparazione del Santo Sepolcro.
A dire il vero si cominciava già due mesi prima, seminando in cantina il grano che poi, nascendo, si trasformava in erba bianca, da mettere nel Sepolcro, insieme ai fiori più belli che ogni famiglia portava in chiesa. 
C'era poi un'altra tradizione che si chiamava “battere Pilato”, cioè ci ritrovavamo in chiesa e, tutti d'accordo, facevamo un colossale baccano battendo i piedi e picchiando sui banchi, per protestare contro la decisione presa da Ponzio Pilato. 
Inoltre si saliva sul campanile e si legavano le campane, che rimanevano legate fino al sabato successivo, dopo di che venivano slegate al suono di una conchiglia gigante che, soffiandoci dentro, emanava un suono di tromba che rimbombava in lontananza, facendosi sentire da un paese all'altro. Tutti allora correvamo alla fontanella a lavarci gli occhi, perchè quando la campana della chiesa suonava, l'acqua diventava benedetta. Io, che abitavo l'ultima casa del paese, sentivo flebilmente il suono della campana e tutta la mattina l'attendevo, aguzzando l'udito per sentirla. Poi correvo velocissima a lavarmi gli occhi alla fontana, lontana più di 200 metri, perchè allora l'acqua potabile non era ancora giunta nelle case. 
Avvicinandosi alla Pasqua, si faceva un altro gioco molto simpatico con le uova di gallina (allora infatti anche le uova di cioccolato erano un tabù per noi, perchè costavano troppo, ma quando non c'è denaro ci si ingegna in un altro modo). Siccome, infatti, di uova di gallina ce n'erano in abbondanza, si veniva a Borgotaro e, con 5 o 10 lire, si comprava dai cartolai carta colorata e si coloravano le uova con la carta, messa nell'acqua a bollire. Così, mentre si solidificavano, si coloravano di rosso, arancione, blu e giallo. Il verde, invece, lo ottenevamo con erbe varie trovate nel campo. La domenica di Pasqua, dopo il vespro, nel piazzale della chiesa, noi bambini giocavamo con le uova sode a “dietro contro punta”, che consisteva nel battere le uova una contro l'altra e vinceva chi riusciva a non far rompere il proprio uovo. C'era un ragazzo che vinceva sempre, tra l'ammirazione e lo sdegno generale. Io ho sempre pensato che il trucco c'era, anche se non si vedeva. Molti anni sono passati da allora. Ora lui è tornato dall'estero, dove è andato a lavorare per tanti anni e mi ha confidato che il suo uovo l'aveva costruito da sé, ed era fatto di terra lerica, e poi pitturato. Pensandoci oggi, penso che era stato un piccolo genio a costruirlo, perchè l'uovo era molto simile ai nostri, e anche guardandolo da vicino nessuno se n'era mai accorto.
Il Venerdì Santo, quando le campane erano legate, usavano uno strumento che noi chiamavamo “sgrisula”, che era formato da una ruota dentata e un'assicella che, azionato con una manovella, emetteva un suono simile al gracidare delle rane. 
La sera poi del Venerdì Santo, come si fa ancora adesso, si portava in processione il Cristo Gesù morto, accompagnandolo con torce e belle luci lungo tutto il tragitto, e con fuochi d'artificio dai fiori fosforescenti, che in cielo disegnavano magnifici arabeschi. Pregando tutti insieme, attraversavamo il paese per ritornare in chiesa per la benedizione e il saluto, con il proposito di ritrovarci presto.