Don Ferrante, il negazionista dei “Promessi Sposi”
Gli
autori “classici” della letteratura spesso ci consegnano figure di personaggi
emblematici, frasi o concetti che, anche a distanza di tempo, ci ritornano in
mente e ci portano prima a rievocare con la memoria le letture fatte e poi,
come diretta conseguenza, a rileggere quelle pagine che avevamo, in parte,
dimenticato.
La
rilettura, inoltre, aggiunge spunti ed elementi di riflessione che, magari a
primo acchito, ci erano sfuggiti o non ci avevano colpito particolarmente.
In questi anni in cui la tragica epidemia da Covid che ci ha investito sembra ormai solo un ricordo, ripensavo alla figura di Don Ferrante, un personaggio
che, nei “Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni, ha un ruolo secondario eppure,
per certi aspetti, merita di essere ricordato perché è, in un certo qual senso,
ancora attuale.
Si
tratta di un nobiluomo milanese che ha accolto nella sua casa Lucia dopo che la
stessa è stata liberata dal castello dell'Innominato. Come noto, il crudele
bandito si era convertito dopo aver incontrato il cardinale Borromeo.
Don
Ferrante viene presentato da Manzoni nel corso del capitolo XXVII come un uomo
molto dotto, ma di una dottrina sterile e nozionistica che l'autore descrive in
modo a tratti ironico.
Un
uomo che trascorre gran parte del suo tempo a studiare i quasi 300 libri della
sua biblioteca, senza curarsi delle normali vicende famigliari, delegate alla
moglie Prassede. Quel che interessa a noi è quel che accade all'arrivo della
peste, allorché Don Ferrante è tra i più risoluti e costanti nel negarne la
pericolosità.
Usando
termini attuali, si potrebbe definire il maggior “negazionista” del romanzo. E,
quel che è più curioso, sono le motivazioni con cui sostiene le sue teorie,
ossia non certo facendo “ischiamazzi”, come scrive Manzoni nel capitolo XXXVII,
ma avvalendosi del ragionamento, e ragionamenti di prim'ordine, che si affidano
nientemeno che alla logica aristotelica.
“In rerum natura,” diceva
dunque don Ferrante “non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti; e
se io provo che il contagio non può essere né l'uno né l'altro, avrò provato
che non esiste, che è una chimera. E son qui. Le sostanze sono o spirituali o
materiali. Che il contagio sia sostanza spirituale, è uno sproposito, che
nessuno vorrebbe sostenere; sicché è inutile parlarne. Le sostanze materiali
sono o semplici o composte. Ora, sostanza semplice il contagio non è; e si
dimostra in quattro parole. Non è sostanza aerea; perché, se fosse tale, invece
di passare da un corpo all'altro, volerebbe subito alla sua sfera. Non è
acquea; perché bagnerebbe e verrebbe asciugata da' venti. Non è ignea; perché
brucerebbe. Non è terrea; perché sarebbe visibile. Sostanza composta, neppure;
perché a ogni modo dovrebbe esser sensibile all'occhio o al tatto; e questo
contagio, chi l'ha veduto? Chi l'ha toccato?”
Sarà dunque un “accidente”?
Don Ferrante nega anche quello, ma non voglio tediarvi oltre. In conclusione,
la colpa del contagio sarebbe da assegnare a una qualche maligna congiunzione
astrale, contro cui l'uomo non può nulla.
La conclusione della
vicenda umana di questo personaggio un po' strampalato la lasciamo esporre
direttamente a Manzoni che, con la sua solita ironia, ne mette alla berlina
tutte le contraddizioni: “His fretus, vale a dire su questi fondamenti, non usò
nessuna precauzione contro la peste; la prese, e andò a letto, andò a morire,
come un eroe di Metastasio, pigliandosela colle stelle. E quella famosa
libreria? La è forse ancora dispersa attorno pei muriccioli”.
E così, anche la
letteratura ci consegna argomenti su cui riflettere e ci invita a fidarci di
più della scienza medica che dei ragionamenti dei singoli che, per quanto
apparentemente logici, non hanno base scientifica.

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