Cicerone e le chat: i messaggi "abbreviati" esistevano già nell'antica Roma
Spesso
si pensa che le abbreviazioni nei messaggi scritti, ricevuti e inviati, siano
una novità piuttosto recente e siano legate soprattutto all'uso negli sms prima
e, in seguito, nelle chat di WhatsApp o, più in generale, sui social.
Da
c6 a bn, da qlcs a cmq, passando per tvb e xkè, c'è stato materiale a
sufficienza per far storcere il naso ai linguisti e, in generale, agli amanti
della lingua italiana. Se
l'uso delle abbreviazioni negli sms era legato alla necessità di restare
all'interno del numero ridotto di caratteri consentiti dal sistema, oggi il
loro uso è diventato parte del codice stesso e del rituale di un certo tipo di
comunicazione, a cui si sono aggiunte anche le emoji e, da qualche tempo, la
possibilità di creare anche un proprio avatar nei messaggi su Facebook. Cose
più o meno note a tutti, su cui è inutile dilungarsi.
Meno
noto è il fatto che, già nell'antica Roma, si era soliti usare abbreviazioni
simili alle nostre nelle lettere personali. L'argomento è trattato anche nel
libro “I tweet di Cicerone” di Tom Standage, Codice edizioni, 2015. L'élite
romana dell'età repubblicana, in generale, era colta e istruita e i trasporti
erano veloci e affidabili. Roma era collegata, come noto, da una serie di
strade efficienti e trafficate, su cui viaggiavano merci, persone e
informazioni. La facile reperibilità dei messaggeri, in genere schiavi,
permetteva di far circolare giornalmente la corrispondenza in città. I messaggi
inviati potevano essere di carattere formale o più familiare e discorsivo. Tra
le abbreviazioni, una delle più usate era SPD (“salutem plurimam dicit”, ovvero
“ti saluta tanto”).
Perché
i romani le usavano, però? La ragione è la stessa o quasi che porta ad usarle
oggi, ossia la mancanza di tempo. Spesso le lettere venivano scritte durante un
viaggio, oppure tra una portata e l'altra di un pasto, e poi affidate al
messaggero che velocemente, si fa per dire, partiva per andare a consegnarle. Uno
dei più assidui scrittori di lettere fu Cicerone. Basti pensare che solo quelle
giunte fino a noi sono circa 900.
Marco
Tullio Cicerone, grande oratore e scrittore della latinità, è un po' il simbolo
della Repubblica romana ed è ancora oggi portato ad esempio di bello scrivere. Ebbene
Cicerone, quando scriveva agli amici, alternava il latino all'uso di raffinate
parole greche e si affidava all'opera di esperti scribi, come Tirone, che lo
accompagnò per buona parte della sua carriera. Anche un uomo così colto come Cicerone
concludeva spesso le comunicazioni con un'abbreviazione, ossia SVBEEV (si
vales, bene est, ego valeo), che significa “se stai bene, ne ho piacere: io sto
bene”.
Le lettere inviate all'interno dell'Urbe venivano vergate con uno stilo
su tavolette di cera montate all'interno di cornici di legno. La risposta
veniva poi aggiunta sul fondo della tavoletta, o questa veniva cancellata e
riscritta. Se il messaggio andava inviato più lontano, veniva scritto su fogli
di papiro, più leggeri ma anche più costosi.
L'uso
delle abbreviazioni a Roma era molto diffuso anche nelle lapidi funerarie. Si
pensi a S.T.T.L. (sit tibi terra levis) ossia “ti sia leggera la terra”. Ma
questo è un altro discorso e magari lo faremo un'altra volta.
Commenti
Posta un commento