martedì 11 dicembre 2018

I grandi incipit della letteratura: "La luna e i falò" di Cesare Pavese





Cari amici, l'incipit che voglio presentarvi oggi è tratto da "La luna e i falò" (1950), capolavoro di Cesare Pavese (1908-1950).
La scelta di questo romanzo è legata al fatto che rappresenta, secondo diversi critici, il suo testamento spirituale, visto che precede di poco la tragica conclusione della sua vita, a cui pose fine con il suicidio. L'ambiente è quello delle Langhe, quella parte del Piemonte a cui Pavese è rimasto legato fin dai tempi dell'infanzia. Il protagonista del romanzo è un emigrante che, dopo essere tornato dall'America, ripercorre le vie di quel paese che ha conosciuto da ragazzo e scopre che tante cose sono cambiate, tranne appunto il paesaggio e Nuto, un vecchio amico con cui ama ricordare il passato. Mentre i ricordi si susseguono nella sua mente, nuovi falò vengono a testimoniare la disperazione del presente. 

Ha scritto Leone Piccioni, cogliendo appieno molti aspetti centrali del romanzo: "La luna e i falò [...] porta al massimo sviluppo ed al coronamento una serie di temi del più valido repertorio di Pavese: dal tema del "ritorno" alla attività, perspicua e duplice, della memoria, [...] dal favoleggiare su paesaggi e figure, alla concreta immediatezza umana. Nell'ultima parte del romanzo, di questo suo vero congedo, arriva al più definitivo chiarimento del suo percorso narrativo, aggredendo naturalmente, e facilmente, il tono della poesia". Spero di avervi invogliato alla lettura del romanzo. Eccovi l'incipit.



Incipit di "La luna e i falò"



C'è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c'è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch'io possa dire "Ecco cos'ero prima di nascere". Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi. 
La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un cavagno da vendemmia due povere donne da Monticello, da Neive o perché no da Cravanzana. 
Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione.
Se sono cresciuto in questo paese, devo dir grazie alla Virgilia, a Padrino, tutta gente che non c'è più, anche se loro mi hanno preso e allevato soltanto perché l'ospedale di Alessandria gli passava la mesata. Su queste colline quarant'anni fa c'erano dei dannati che per vedere uno scudo d'argento si caricavano un bastardo dell'ospedale, oltre ai figli che avevano già. 
C'era chi prendeva una bambina per averci poi la servetta e comandarla meglio; la Virgilia volle me perché di figlie ne aveva già due, e quando fossi un po' cresciuto speravano di aggiustarsi in una grossa cascina e lavorare tutti quanti e star bene.
Io venni su con le ragazze, ci rubavamo la polenta, dormivamo sullo stesso saccone, Angiolina la maggiore aveva un anno più di me; e soltanto a dieci anni, nell'inverno quando morì la Virgilia, seppi per caso che non ero suo fratello. 
Adesso sapevo ch'eravamo dei miserabili, perché soltanto i miserabili allevano i bastardi dell'ospedale. Prima, quando correndo a scuola gli altri mi dicevano bastardo, io credevo che fosse un nome come vigliacco o vagabondo e rispondevo per le rime. 
Ma ero già un ragazzo fatto e il municipio non ci pagava più lo scudo, che io ancora non avevo ben capito che non essere figlio di Padrino e della Virgilia voleva dire non essere nato in Gaminella, non essere sbucato da sotto i noccioli o dall'orecchio della nostra capra come le ragazze.

Nessun commento:

Posta un commento