sabato 11 aprile 2020

I due soldati (ovvero Pasqua di guerra)

Racconto di don Elio Sidoli


Ogni tanto mi piace proporvi un bel racconto di don Elio Sidoli, già parroco nella Val Vona di Borgotaro. A oltre 25 anni dalla morte, i suoi testi hanno ancora molto da dire. Il racconto che vi presentiamo oggi, "I due soldati (ovvero Pasqua di guerra)", ci sembra proprio richiamare quello che sta accadendo in questi giorni. Quella che stiamo vivendo è una Pasqua anomala, triste, addolorata dai tanti morti che questo virus tremendo sta mietendo nella nostra popolazione. E' una guerra anche questa, in un certo senso. Il racconto è tratto dal libro "I racconti di don Elio" (Ass. Emmanueli), una pubblicazione locale da tempo, purtroppo, esaurita. Buona lettura!


I due soldati (ovvero Pasqua di guerra)


E' il Sabato Santo dell'anno di grazia 1944. Anche quest'anno sarà una Pasqua di guerra. Anche quest'anno Cristo ripeterà la Sua Passione nelle carni straziate dei soldati che combattono ancora, in mezzo ai dispersi senza più guida e speranza, fra quelli che sono fuggiti ai monti e aspettano, soffrendo anch'essi, che il Calvario finisca. Cristo ripeterà la sua agonia anche tra il branco di soldati tedeschi, dai volti arcigni e impenetrabili, che occupano quasi tutte le case della mia parrocchia. É primavera e il pruno si è fatto fiore: domani Cristo risorgerà dai morti, ma è una Pasqua triste lo stesso: adesso sono i giorni del Calvario. La Pasqua verrà: ma quando, ci domandiamo tutti, quando? Ieri sera ho fatto la processione del Venerdì Santo. C'era poca gente: quei pochi che sono rimasti. Donne, vecchi, bambini. Di quelli che sono partiti e ai quali ho stretto la mano, quando sono passati a salutarmi, i più aspettano la Resurrezione sepolti sotto la neve nelle desolate steppe della immensa Russia o sotto le sabbie calde del deserto. Solo qualcuno è tornato. É arrivato di notte come un ladro e di notte è ripartito. Verso i monti: ancora la via del Calvario.
Alla processione di ieri sera erano in pochi e come oppressi da una immensa tristezza.
Il massaro della Chiesa che portava la grande Croce di noce massiccio con su inchiodato un Cristo bizantino che pareva racchiudere nel volto scarno e nelle membra distorte tutti i dolori e le sofferenze di quell'ora, procedeva adagio e pareva appunto l'uomo di Cirene, angariato e costretto a portare la Croce di Gesù. Anche i quattro vecchi che portavano il Cristo morto pareva avessero sulle spalle curve il peso di tutte le miserie e le sofferenze umane, tanto procedevano adagio, quasi di malavoglia, seguiti da poche donne in gramaglie. Abbiamo fatto il giro del paese deserto: abbiamo incontrato branchi di tedeschi, alcuni dei quali si addossavano ai muri e abbozzavano un mezzo saluto; altri, ubriachi, che schiamazzavano in compagnia di ragazzotte senza ideologie e senza morale. Una cerimonia mesta: senza canti, senza spari di mortaretti, triste come un funerale. La gente si è squagliata subito ed io sono rimasto solo nella mia piccola chiesa vuota, davanti al Cristo morto. Anch'io nella speranza della Pasqua.
Ora qualcuno tossiva dalla parte della sacrestia. Era un tossire debole e represso che appena riuscivo a percepire. Ero solo, ma non avevo paura. In quei giorni d'incertezza la paura era un lusso che non ci potevamo permettere. Mi avvicinai e capii subito che si trattava di uno di quelli che stavano ai monti: di quelli che i tedeschi chiamavano “banditi”, gli altri “patrioti”, e noi fratelli. A malapena, illuminata dai riflessi del lumino che bruciava davanti al Tabernacolo, ne potevo osservare la faccia barbuta e gli occhi luccicanti che spuntavano da sotto le sopracciglia cespugliose. “Vorrei confessarmi”, disse. “Domani è Pasqua, se ha un minuto di tempo... sarà una faccenda breve”.
Lo condussi nel campanile (fuori si sentiva il passo pesante e cadenzato della sentinella tedesca che passava e ripassava davanti al portone), si inginocchiò per terra e si confessò. Fece la Comunione e si inginocchiò nel coro con la testa tra le mani.
Aspettavo che si alzasse, quando m'accorsi che qualcuno picchiava contro il portone della chiesa. Era un bussare secco come fa un corpo metallico battuto contro un legno vecchio di millenni. Feci un segno all'uomo del coro che pareva non essersi accorto di nulla e questi scomparve nel campanile. Era un tedesco quello che picchiava contro la porta col calcio del fucile: un giovanotto biondo, con due occhi chiari come l'acqua, con il volto di bambino. Chiuse la porta in fretta, si guardò attorno e venne verso di me. Il soldato, ora, con l'elmetto in mano, mi chiedeva di confessarlo. “Domani è Pasqua”, disse il crucco, “io sono cattolico; ho visto il lume in chiesa e ho pensato che potevo confessarmi”.
Nella sua voce c'era una domanda umile ed incerta, come se temesse un rifiuto. Fu una cosa breve. Dal campanile, intanto, giungeva un tossire fioco e represso dell'altro, ma il tedesco pareva non se ne accorgesse. Andò in coro anche lui e stette parecchio tempo con la testa fra le mani e quando si alzò venne verso di me, dopo essersi aggiustato il fucile a tracolla. “Passi in casa”, dissi io, “prenderà qualche cosa”. Entrò, rimase in piedi finché non gli feci cenno di sedere. Ero passato a benedire le case e avevo delle uova. Nella madia avevo ancora una pagnotta di pane scuro. Misi sulla stufa un tegamino e mentre annegavo due uova nello strutto, mi accorsi che il tedesco mi guardava in modo strano. Mi fissava con uno sguardo triste, come se volesse dire qualche cosa. Ora il soldato si era alzato e veniva verso di me. “Padre, chiami anche l'altro: quello che è in chiesa. Ho visto il suo fucile nel coro e l'ho sentito tossire. Anche lui è un soldato e anche per lui domani è Pasqua”.
Osservavo i due uomini che mangiavano in silenzio quello che la mia miseria aveva preparato. Mangiavano adagio quasi per poter assaporare tutto il sapore del pane scuro che avevano davanti e che tagliavano a piccole fette. I fucili li avevano appoggiati vicini, contro il muro del camino. In aprile, alle quattro del mattino è giorno chiaro. Albeggiava. Ora osservavo il tedesco che colla mano raccoglieva le briciole sparse sulla tavola e se le rovesciava in bocca. Nel fiasco c'era ancora un poco di vino: ma poco. Il crucco prese il fiasco, riempì il bicchiere dell'uomo che gli stava di fronte ed il suo: a metà. Toccarono i bicchieri insieme e si alzarono.
“Buona fortuna”, disse il soldato all'uomo.
“Arrivederci” rispose l'altro. E si salutarono militarmente. Il tedesco uscì per primo: l'altro subito dopo. Mi affacciai sulla porta a vederli partire. L'uomo girò verso il monte e scomparve subito dietro una siepe. L'altro si incamminò verso il centro del paese, con un'andatura stracca ed un passo strascicato che stonava colla sua figura giovanile.












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