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Erano
gli anni '50: era appena finita la Seconda Guerra Mondiale, e si
viveva con parsimonia. Anche possedere un ombrello era una fortuna.
Prestarselo uno con l'altro, all'interno della famiglia, era cosa
comune. Anche in casa mia si faceva così, e a forza di passarselo
di mano in mano, sovente si rompeva, e gli cadevano le stecche. Non
si avevano i soldi per comprarne un altro e allora, quando si sentiva
strillare “Ombrellaio!”, si correva fuori a cercarlo. Arrivava
allora quell'uomo, con a tracolla un ombrello che aveva aggiustato, e
appresso a lui un figlioletto di sette-otto anni, coi capelli rossi e
il naso ricoperto di lentiggini; così carino, che era immediatamente
simpatico a tutti, ma a noi bambini in modo particolare. Sentivamo
suo padre sgridarlo sovente, e intimargli di aiutarlo ad aggiustare
gli ombrelli; un lavoro da grandi, che di bello aveva solo la fatica,
e poi il lungo cammino di casa in casa. Ci dissero che suo padre
veniva dalla Toscana; mi sembra abitasse vicino Aulla. Mentre il
padre aggiustava i pochi ombrelli che i nostri vicini gli portavano,
il bambino giocava molto volentieri con noi, a pallone o a
palla-prigioniera. Quando il padre lo sgridava, perchè non lo
aiutava, lui si sfogava con noi e ci diceva che da grande non avrebbe
fatto l'ombrellaio come suo padre, ma avrebbe cercato un lavoro
migliore e sarebbe diventato ricco. A noi, queste parole, ci facevano
sognare. Intanto giocavamo con un pallone fatto di stracci, e il
padre del bambino, che a volte sembrava così burbero, in cuor suo
era felice che suo figlio si divertisse con noi. Noi sorridevamo.
C'era allora una sorta di spontanea complicità, che faceva sì che
tutte le persone andavano naturalmente d'accordo: cosa che purtroppo
non esiste più.
Spesso,
giunta la sera, l'ombrellaio e il figlio si fermavano a mangiare da
noi: il solito piatto di minestra di legumi, che a casa nostra non
mancava mai. L'ombrellaio ci raccontava: “A casa mia ho altri tre
figli da sfamare, e il cibo non basta mai”.
Alcuni
anni dopo, io e i miei fratelli dovemmo emigrare in cerca di fortuna
e, nei lunghi anni all'estero, ci dimenticammo dell'ombrellaio e di
suo figlio. Al ritorno, i miei genitori mi dissero che, qualche tempo
prima, era venuto al paese un bel giovane a cercare i suoi vecchi
compagni di gioco. Aveva i capelli rossi, le lentiggini sul naso e,
tra le mani, un bell'ombrello dal manico dorato e arabescato. Disse
ai miei genitori che era tornato per mantenere una promessa che ci
aveva fatto da bambini. A quel punto, noi ci ricordammo del figlio
dell'ombrellaio e, chieste notizie, venimmo a sapere che
probabilmente aveva aperto una boutique di lusso, dove venivano
costruiti anche ombrelli. Quell'ombrello dorato è ancora nella mia
casa di campagna, ed è il ricordo di un caro amico che aveva
realizzato i suoi sogni.
Rita Santini, borgotarese, ha pubblicato poesie su giornali e periodici locali dell'Emilia Romagna, come “L'Araldo della Madonna di San Marco”, il “Lunariu Burg'zan” e la “Voce del Taro”, per cui ha scritto anche molti racconti. Ha partecipato a mostre di poesia, come il “Natale ritrovato” del Seminario di Bedonia, e le sue poesie sono state pubblicate ogni anno sul libro dei partecipanti. Molti, inoltre, gli attestati di partecipazione ricevuti da periodici e concorsi di altre regioni d'Italia. In particolare si ricorda la pergamena ottenuta partecipando ad un concorso indetto dal giornale “Lo Scoglio” di Roccaporena di Cascia. Recentemente ha conseguito il terzo premio al 35° Concorso di poesia organizzato dalla parrocchia di San Bernardo degli Usberti di Parma.
Una leggerezza che rinfresca la lettura di un racconto, pieno del profumo dei ricordi
RispondiEliminaOltre l'ombrellaio c'era anche il vasaio che riparava grandi vasi di coccio in cui le mamme facevano il bucato. Spesso come ricompensa accettavano vecchi capelli tenuti da parte per l'occorrenza o addirittura un piatto di pasta o di legumi. I bambini giocavano a palle di carte tenute assieme in vecchie calze, antenate dell'attuale riciclo. Fine anni '50
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