giovedì 26 dicembre 2013

"Tex secondo Nizzi": Claudio Nizzi a Borgotaro

Claudio Nizzi e Massimo Beccarelli
Lo scorso 30 novembre è stata una grande giornata per Borgotaro e per gli appassionati di fumetti. L'ospite d'onore della giornata era nientemeno che Claudio Nizzi, sceneggiatore di Tex Willer, il fumetto più famoso e amato d'Italia. E non uno sceneggiatore qualsiasi, ma il più amato, il più autorevole, colui che ha preso in mano le redini della serie dopo l'abbandono di Gianluigi Bonelli,
Oltre al suo impegno sulla serie regolare, bisogna infatti ricordare che è l'autore di quasi tutti i Texoni, ossia quei volumi di grande formato che ogni anno la Bonelli affida, via via, ai più grandi disegnatori di livello mondiale, e che hanno ulteriormente contribuito ad accrescere la fama di Tex.

mercoledì 20 novembre 2013

"Borgotaro e gli Sforza" di Stella Leprai: un paese diviso in due




Oggi vi voglio parlare del libro “Il governo del disordine ai confini di uno stato. Borgotaro e gli Sforza (1467/1488)” di Stella Leprai, ricercatrice presso l'Università di Milano.
E' un piacere ogni volta che una ricerca, un saggio, un libro, ci permette di approfondire qualche aspetto della storia del nostro paese. Questo ancora di più in questo caso, perchè il '400 è senza dubbio, per noi, uno dei periodi più interessanti, più ricchi di spunti. Un periodo in cui il nostro paese rivestiva una grande importanza strategica poiché, collocato proprio nel cuore dell'appennino, collegava la pianura padana con Genova, Pontremoli e Lucca; un punto nevralgico anche per accedere al ducato di Milano.
E così, in quegli anni, Borgotaro si trovò spesso al centro di dinamiche sovra-locali, passando in pochi anni dalla dominazione Viscontea a quella dei Landi, dei Fieschi e quindi degli Sforza, per poi tornare di nuovo, a fine secolo, nelle mani dei Fieschi.
Dalla lettura del libro si evince che, al momento della conquista sforzesca (1467), Borgotaro era una cittadina di circa 3000 abitanti: con mura, piazze, la rocca, un patriziato locale, ed era sede di antiche istituzioni ecclesiastiche. La vita economica era piuttosto attiva, c'erano numerose botteghe sulla via principale, dove si teneva anche il mercato, si intrattenevano relazioni economiche e commerciali con realtà esterne al Ducato di Milano. Le famiglie più importanti della città, i principales, tanto per fare alcuni nomi, erano i Cabruna, Ruinaglia, Borgarelli, Borgognoni, Stradella, Rugallo, Costerbosa, Platoni (Notate questi cognomi: alcuni oggi sono scomparsi; altri esistono ancora, leggermente modificati; altri richiamano il nome di alcune località del circondario). 
Foto Valerio Agitati: presentazione del libro a Borgotaro
Tra di esse, però, due emergevano nettamente: I Platoni (definiti “gatteschi” per il loro legame coi Fieschi) e i Costerbosa (o “ducheschi”, per il loro legame con gli Sforza) Queste famiglie erano in lotta per il potere, per acquisire la maggioranza nel consilium, per accedere ad importanti benefici ecclesiastici o cariche. Conoscevamo già tanti di questi aspetti, che erano stati oggetto anche di alcune pubblicazioni dell'Associazione “A. Emmanueli”, ma sono molti gli argomenti nuovi e interessanti che emergono dalla lettura di questo importante studio. Una delle cose che più colpisce è che, in quegli anni, l'inasprirsi della rivalità tra Platoni e Costerbosa aveva comportato la divisione di Borgotaro in due “bande”, cioè in due parti. Oggi le zone non risultano definibili con precisione, ma alcuni elementi sembrano chiari: La zona occidentale era abitata in prevalenza dai Costerbosa, che avevano una propria chiesa (San Domenico) e una propria porta di accesso al Borgo, quella principale, che dava sul fiume Taro. E ripensandoci oggi sembra anche logico, considerato che fu proprio un Costerbosa, Nicolasio, a finanziare la fondazione del convento di San Domenico nel 1448. La zona orientale, invece, era abitata dai Platoni, con una propria chiesa (Sant'Antonino) e una propria porta: quella che conduceva a Parma, che sarà da collocare probabilmente nelle vicinanze di quella che oggi chiamiamo Porta Farnese. In una lettera ducale si giunse addirittura a proporre la costruzione di una “murata”, su modello del muro Cazzaguerra di Pontremoli, per dividere queste due parti. Muro che però non fu mai costruito.
Interessante è anche il racconto di uno dei fatti più famosi di quel periodo, che già conoscevamo, ma che in questo libro viene arricchito di particolari e di precisi riferimenti documentali. Si tratta del fatto di sangue che avvenne a Borgotaro il 26 ottobre 1473, quando, durante una riunione del Consiglio della Comunità, Pietro Antonio Costerbosa, alla testa di un gruppo di uomini armati, fece irruzione nella sala del palazzo podestarile dove era riunita l'assemblea e uccise cinque dei più importanti esponenti della fazione dei Platoni: Andrea Rugallo, Ludovico e Marco Platoni, Benedetto Moreno e Domenico Batticorno. Questo episodio è sempre stato considerato come l'inizio di una parentesi violenta nella storia borgotarese, durata dal 1473 al 1475, e conclusasi con la pace stipulata tra Platoni e Costerbosa in Sant'Antonino nel 1475. In realtà, come si evince dai documenti citati nel volume della Dott. Leprai, la guerra civile di quei due anni fu solo l'esito di un'escalation di violenza che ebbe inizio alla fine degli anni '60 e continuò ben oltre la metà degli anni '70 del '400. Sono frequenti infatti le lettere del carteggio sforzesco, citate nel libro, dove si parla di “excessi” e “scandoli” commessi da Platoni nei confronti di Costerbosa e viceversa. Liti per terreni, piccole eredità, scambi di vedute, spesso sfociavano in risse, ferimenti o uccisioni. E dietro si intravedeva l'odio politico delle diverse fazioni. Comunque sia, quei due anni, per Borgotaro, furono terribili: giova forse citare le parole famose usate dallo storico piacentino Scarabelli per descrivere la guerra civile: “Fu guerra dichiarata, il paese diviso, tutti inferociti, si assalivano e si squarciavano, divisi i parenti, non v'erano crudeltà che tra loro non commettessero, fur visti alcuni bere il sangue del nemico ucciso, altri mangiare crude e cotte le viscere. Tigri non uomini”.
Il libro della Dott. Leprai chiarisce anche un'altra questione. Secondo alcuni storici del passato, come il già citato Scarabelli e il Crescenzi, l'uccisione dei cinque Platoni da parte di Pietro Antonio Costerbosa sarebbe stata una reazione dei Costerbosa alla decisione del Duca di Milano di cedere Borgotaro ai Platoni. La notizia risulterebbe essere falsa, in quanto basata su una lettera del Duca Galeazzo Maria Sforza a Francesco Hena dei Platoni, che però, secondo quanto affermato dall'autrice, sarebbe palesemente contraffatta.
In conclusione, questo volume fornisce molti spunti di riflessione e speriamo possa invogliare a studiare ancora meglio questo importante periodo della storia di Borgotaro.
                                                                                                                               
Massimo Beccarelli


giovedì 3 ottobre 2013

"Il sole e la neve" di Luigi Alfieri


La presentazione a Borgotaro: foto di Alessandra Bassoni
Vi voglio parlare, oggi, di un libro di cui ho curato la presentazione in Biblioteca Manara a Borgotaro, ormai qualche tempo fa. Si tratta di “Il sole e la neve” di Luigi Alfieri, caporedattore della “Gazzetta di Parma”. Al libro ha collaborato anche Enrico Robusti, grande artista parmigiano, che ha realizzato le immagini che lo corredano. 
Ci tengo a parlarne perchè “Il sole e la neve”, è un libro di grande originalità, fabbricato artigianalmente e stampato su “carta paglia”, la particolare carta usata anche da macellai e salumieri. La rilegatura è fatta con lo spago, come quello che si usa di solito per i salami e i culatelli. La tiratura è bassissima: solo 300 copie. 

sabato 28 settembre 2013

"Mostri Normali" di Luca Ponzi, gialli italiani irrisolti

La presentazione del libro a Borgotaro (PR). Foto di Valerio Agitati.
E' un libro agile, gradevole, “Mostri Normali”. Scritto con un linguaggio chiaro, diretto, immediato. 
L'autore è Luca Ponzi., fidentino, giornalista professionista. Dopo aver lavorato alla “Gazzetta di Parma”, attualmente lavora alla Rai. Ha seguito, nel corso della sua carriera, alcune tra le vicende di cronaca più importanti degli ultimi anni, dal crac Parmalat al sequestro e omicidio del piccolo Tommaso Onofri. 

lunedì 23 settembre 2013

Sant'Antonino martire: storia controversa di una reliquia




Le notizie su Sant’Antonino martire, cui è dedicata la chiesa parrocchiale di Borgotaro (PR), sono poche e confuse. Secondo la tradizione, Antonino sarebbe nato a Piacenza nell’anno 270 dopo Cristo. Non tutte le fonti, però, concordano su questo dato. Alcuni, infatti, ritengono che il santo sia nato ad Apamea, in Siria.
Giovane di stirpe nobile, Antonino era cresciuto nel benessere. Ben presto, tuttavia, decise di vivere secondo gli insegnamenti del Vangelo.

Ancora giovane, intraprese un viaggio in Terra Santa e, mentre si trovava laggiù, venne a sapere che, in Egitto, si trovavano gli “apostolici soldati” della Legione Tebea, una formazione militare romana interamente composta da cristiani e guidata da Maurizio, un valoroso condottiero. Intenzionato a conoscerli, Antonino si recò in Egitto e rimase affascinato dalla virtù e dalla profonda fede cristiana di quei soldati.

Ben presto, egli chiese di essere arruolato nella Legione, e la sua richiesta venne accettata. I legionari, quando erano liberi dagli impegni militari, si dedicavano anima e corpo alla predicazione del Vangelo. I due imperatori dell’epoca, Diocleziano e Massimiano, venuti a conoscenza della cosa, decisero di prendere urgenti provvedimenti. Avrebbero obbligato quei soldati a convertirsi al paganesimo, a qualunque costo. Convocarono perciò i legionari in Italia, dicendo che avevano bisogno del loro aiuto per sedare una sommossa. I soldati, fedeli all’Impero quanto al Vangelo, partirono senza esitare. Imbarcatisi ad Alessandria d’Egitto, essi giunsero ben presto a Roma, dove vennero rincuorati da papa Marcellino, che li spronò a proseguire nella loro opera apostolica. Frattanto, l’imperatore Massimiano li invitava a raggiungere la Francia, dove li stava aspettando. Non appena giunti, egli cercò ripetutamente di costringere i legionari ad adorare gli dei, ma non riuscì nel suo intento. Furente, Massimiano ordinò lo sterminio completo della Legione. La vicenda di Antonino, a questo punto, si fa confusa. Non è chiaro, infatti, in che modo il santo scampi al massacro. Fatto sta che Antonino, e pochi altri, sopravvivono. In seguito ritroviamo il santo a Piacenza, dove prosegue la sua opera di evangelizzazione. La sua attività provoca sempre più le ire dei funzionari imperiali, che decidono, infine, di ucciderlo. Il 4 luglio 303, a Travo, nei pressi del fiume Trebbia, Antonino viene da essi fermato e selvaggiamente picchiato. Poiché, nonostante le feroci percosse, egli non intendeva abiurare la fede cristiana, i suoi aguzzini lo decapitarono. Il suo corpo mutilato venne gettato nel fiume Trebbia. La leggenda narra che il sangue del martire si congelò sopra le onde, e fu raccolto da due angeli, che lo deposero sopra una barchetta, assieme al capo. Gli angeli guidarono la barca verso la città, fino alla casa di Festo, un amico di Antonino. L’uomo, avvertito in sogno, recuperò gli altri resti del martire e li seppellì sotto la propria casa. Le sante reliquie rimasero lì finchè il vescovo Savino non le ritrovò e le fece trasportare nell’attuale Basilica di Sant’Antonino a Piacenza, che ancora oggi le conserva.
Dunque, come detto, le reliquie di Sant’Antonino sono conservate a Piacenza. Ma chi è dunque quel Sant’Antonino che è sepolto nella chiesa parrocchiale di Borgotaro? Nella nostra chiesa, infatti, presso l’altare del Sacro Cuore si trova una scritta in latino che sembra non lasciare dubbi: “Corpus S. Antonini Martyris hic quiescit”(il corpo di Sant’Antonino martire riposa qui). 
 La vicenda è stata trattata in modo approfondito da Giacomo Bernardi nel libro Borgotaro: qualcosa che conosco (Parma, Mup Editore, 2005). Bernardi sottolinea che il corpo presente nella chiesa di Borgotaro è senz’altro quello di un martire, come testimoniato da alcuni documenti dell’800. Come risolvere l’enigma? Esistono due corpi di Sant’Antonino? Evidentemente si tratta di due diversi martiri, che avevano lo stesso nome. Lasciamo la parola a Bernardi: “Sapete quanti martiri, oltre il nostro, portano il nome di Antonino? Almeno otto. Tutti martiri e santi. Il rebus, quindi, potrebbe avere una soluzione. A Piacenza si conserva il corpo di quello che è detto “San Antonino di Piacenza”; a Borgotaro, invece, è giunta un’urna con le spoglie di un San Antonino, martire e santo, ma non “di Piacenza”.

A chi appartiene dunque il corpo presente sotto l'altare del Sacro Cuore nella chiesa di Sant'Antonino di Borgotaro? Alcuni esperti hanno sostenuto trattarsi di un martire proveniente dalle catacombe romane. 
Tutto questo, comunque, non ci deve per forza far pensare ad eventuali falsificazioni storiche nel contesto di un possibile commercio delle reliquie. Molto più semplicemente, la verità storica è, in taluni casi, difficilmente raggiungibile per mancanza di documenti e di prove attendibili. 
                                                                                          Massimo Beccarelli

venerdì 20 settembre 2013

"Elvira, la modella di Modigliani” di Carlo Valentini



Oggi vi voglio parlare di un libro che ho letto qualche tempo fa e che mi ha fortemente colpito. Si tratta di "Elvira, la modella di Modigliani" di Carlo Valentini. 
Valentini è un giornalista professionista, che attualmente lavora alla Rai. In precedenza ha collaborato ad altri importanti quotidiani e riviste (Il Giorno, Il Resto del Carlino, Panorama, Europeo, Italia Oggi, Milano Finanza). É laureato in Sociologia all'università di Trento. Tra gli altri suoi libri: “Il blob-blob della seconda repubblica” (premio Bordighera), “La mia Italia”, “La coppia in amore”. Ha tenuto lezioni di giornalismo all'università di Bologna e pubblicato numerosi contributi sul mondo dell'informazione tra i quali “il rapporto tra lettore e giornale analizzato attraverso le lettere al direttore”.


“Elvira, la modella di Modigliani” è ambientato a Parigi, nel primo novecento: Montmartre e Montparnasse, le Moulin Rouge, i bistrot, i grand cafè. É l'epoca delle grandi avanguardie artistiche e poetiche. La città è un grande polo d'attrazione.

A Parigi approda anche Elvira, giovane in fuga da una vita di stenti e prostituzione. Un modesto lavoro al Cafè de l'Ermitage, “le feste bohemienne, con questi strani pittori che venivano da tutta Europa, parlavano di Cubismo, Futurismo, Manierismo”. Elvira trova casa nei pressi del Bateau Lavoir, luogo mitico dell'arte parigina dell'epoca. Al Chat Noir incontra Amedeo Modigliani, italiano arrivato da Livorno; e da questo momento è il pittore Modigliani l'assoluto protagonista del libro. Pian piano ne comprendiamo l'indole, le convinzioni: “Sono individualista nell'arte ma non nella vita, non riesco a vivere senza una donna, mi cibo di donne e di colori”. Uomo affascinante, dall'abbigliamento curato, di un'eleganza trasandata e studiata.


Massimo Beccarelli e Carlo Valentini (Foto Agitati)
Un uomo dall'aria aristocratica pur nella miseria, sempre rasato di fresco, profumato, una sola camicia, ma lavata ogni sera. Elvira ben presto poserà per lui e diverrà la sua amante. Elvira è un po' l'alter ego di Amedeo. Scrive Valentini: “pronta all'avventura, assetata di conoscere, amante della vita senza pudori, gioiosa anche nelle avversità”. Sarà un legame intenso ma passeggero: “Non mi puoi imprigionare” dirà Amedeo a Elvira “mi faresti morire”. Seguiamo così, tra le pagine del libro, l'intera parabola della vita di Modigliani, le sue tante amanti, i suoi problemi di salute, l'abuso di assenzio, acquavite, rum e hashish. Vengono alla mente le poesie di Baudelaire, i paradisi artificiali prodotti dall'uso di droghe. Modigliani sembra il prototipo dell'artista maledetto. É un intellettuale che conosce a memoria i libri di Dante, che legge Freud, Nietzsche, Bergson e poi, soprattutto, è un grande artista, straordinario pittore, ritrattista e scultore, pronto a sacrificare anche la vita per la sua opera. Non vuole abbandonare Parigi, il cui clima però ne danneggia gravemente la salute. Si legge nel libro: “Qui a Livorno riacquisto le forze, ma a Parigi proprio i tormenti mi stimolano al lavoro”. Fin da allora la sua sorte era segnata, ma quello era il suo destino... ed egli ci si abbandona totalmente. Neppure l'affetto per l'amata Jeanne lo potrà salvare. Un romanzo biografico, dunque, ben documentato, che segue da vicino la vita di Modigliani senza tralasciare di essere avvincente, come solo un romanzo può essere.
                                                                                                        Massimo Beccarelli

martedì 17 settembre 2013

Orsanti: Dal successo dei circhi equestri al declino...


Mario Previ, La partenza degli orsanti, olio sotto vetro, cm. 60x40 

Nel precedente articolo abbiamo parlato degli Orsanti e delle caratteristiche dei loro spettacoli. Voglio ora raccontare come, col passare degli anni, alcuni conduttori di compagnie, i più audaci, i più coraggiosi, ampliarono i loro gruppi, acquistando un sempre maggior numero di animali e coinvolgendo molte altre persone, fino a costituire dei veri e propri circhi equestri. I più famosi della zona di Bedonia (PR) furono i circhi gestiti dalle famiglie Cappellini, Volpi, Chiappari e Bernabò.

Antonio Cappellini, attivo in Spagna, cessa l’attività alla fine dell’ottocento e Giovanni Volpi, attivo in Inghilterra, liquida il proprio circo prima del 1910. Un altro circo bedoniese era quello di proprietà di un certo Chiappari, a tutti noto col soprannome di “Balletto” (castagna cotta). Un aneddoto, legato al Chiappari, è rimasto famoso in alta Val Taro. Mentre costui si trovava in Russia, una magnifica muta di cani levrieri, di proprietà dello Zar, si ammalò e non voleva più mangiare nulla: ”Balletto” interpellato come esperto veterinario, acconsentì a guarirli e in capo ad una settimana li presentò allo Zar sani e ubbidienti, tanto che coglievano al volo divorandole anche le cipolle che a loro venivano lanciate. La cura era stata fatta con un salutare digiuno di sola acqua e una disinfezione generale “interna ed esterna” a base di zolfo.
Ancora più importante di quella di Cappellini, Volpi e Chiappari, fu l’attività della famiglia Bernabò. 
I Bernabò, prima con Paolo di Giuseppe e soprattutto con il Cavaliere Antonio, detto Bin, girarono le città di mezza Europa, da Atene alla Spagna, dalla Tunisia all’Algeria. Nel 1844, ad esempio, Paolo di Giuseppe partecipò alle celebrazioni per la Costituzione greca.

Il massimo della carriera lo raggiunse però Antonio Bernabò che era arrivato a possedere un circo con 80 animali, 50 dipendenti, acrobati, ballerine. In quegli anni, sul finire dell’ottocento, dava spettacoli in tutta Europa, specialmente nei Balcani e nella Russia meridionale. Una raccolta di manifesti d’epoca testimoniano la sua presenza a Parigi per l’Expo Universelle, a Mosca ospite degli Zar.
A Costantinopoli dette uno stupendo spettacolo alla corte del Sultano che ne rimase entusiasta, e gli comprò seduta stante tutto il circo, non prima di averlo premiato con la nomina a Cavaliere e con una vistosa medaglia ricordo. L’epopea dei circhi dei Bernabò non era però ancora destinata a concludersi. Troppo grande era la passione per quel mestiere girovago: Con i soldi ricavati, Antonio comprò un altro circo più grande, continuando a dare spettacoli fino allo scoppio della prima guerra mondiale, che lo sorprese mentre si trovava a Sarajevo. Fu costretto a vendere tutto e a tornare in patria.. Allo scoppio della prima guerra mondiale, infatti, il fenomeno dell’emigrazione girovaga si avviò ad un triste e rapido declino. Anche i proprietari dei circhi più grandi furono costretti ad arrendersi. Molti interruppero l'attività sperando di riprenderla in tempi migliori, che però non vennero più.

Peraltro i tempi erano cambiati, l’epoca d’oro degli Orsanti era ormai un ricordo. Altri divertimenti, come il Cinema, da poco nato, attiravano le folle, e gli spettacoli dei nostri girovaghi interessavano sempre meno.Ciò non significa che il fenomeno degli Orsanti fosse del tutto concluso. 

Va ricordato, a questo proposito, il caso di Giuseppe Granelli detto “Bossetta” o anche “mangiau dall’orso”, perché aveva il corpo segnato da vecchie cicatrici. Costui ancora nel 1940 girava con un orso spelacchiato, un cavallo ammaestrato che tirava il carro, una scimmia e alcuni cani sapienti e mentre la moglie si occupava di offerte, lui, “il domatore”, faceva esibire il suo mini-zoo sulla pubblica piazza intervallando il tutto con marcettine di armonica-musette. Erano gli ultimi bagliori di un fuoco ormai spento da tempo.

Massimo Beccarelli

Le notizie riportate sono tratte dai libri di Giuliano Mortali, “Dizionario storico dei cognomi dell'alta valtaro e valceno” (2005), di Ferruccio Ferrari “Mito, tradizione e storia. Alta valtaro e valceno” (Tipolitografia Benedettina, Parma, 1983), di Marco Porcella "Con arte e con inganno" (Genova, Sagep, 1998) e di Mortali-Truffelli “Per procacciarsi il vitto.L’emigrazione dalle valli del Taro e del Ceno dall’ancien règime al Regno d’Italia" (http://www.diabasis.it/catalogo/collane/parma-e-il-suo-territorio/per-procacciarsi-il-vitto)



domenica 15 settembre 2013

Gli Orsanti, artisti girovaghi della Valtaro








Spesso, nelle Alte Valli del Taro e del Ceno, si sente parlare di artisti girovaghi chiamati Orsanti. Gli Orsanti, ma tutti i girovaghi valtaresi in generale, erano in origine semplici contadini, che impararono, non si sa bene né quando né come, ad addestrare animali per farli lavorare negli spettacoli. Così, vagavano per l'Italia e all'estero con orsi, scimmie e cammelli ammaestrati. E' fenomeno antico, che raggiunge però il suo apice nell'Ottocento. Gli orsanti si presentano in genere organizzati in piccoli gruppi, detti compagnie. Spesso si tratta di poche persone, provenienti dallo stesso paese o da frazioni limitrofe. Molti sono originari del paesino di Cavignaga, vicino a Bedonia (PR).

Si ha notizia di compagnie a conduzione “famigliare” o composte esclusivamente da persone legate da legami di parentela. La compagnia comprendeva anche, ovviamente, un certo numero di animali, tutti ammaestrati e idonei allo spettacolo. Non bisogna pensare, tuttavia, che le compagnie si mantenessero solo con i proventi ricavati dall’esibizione dei propri animali. Ci sono testimonianze che attestano che, mentre alcuni curavano queste esibizioni, altri, magari occasionalmente, “vendevano bottoni, filo da cucire, saponette, polvere di inchiostro, pettini ed immaginette sacre”. Svolgevano, cioè, anche il mestiere del mersà (del merciaio). Ma torniamo alla compagnia e agli animali che la componevano. Questi potevano essere i più vari.

Si andava dagli animali più comuni, come i cani, le capre e i cavalli, tutti però addestrati a compiere giochi di abilità, fino alle scimmie, gli orsi, i cammelli. Costruire una compagnia non era cosa semplice. L’acquisto degli animali, in particolare dell’orso, richiedeva un elevato esborso di denaro. L’addestramento dell’animale poteva durare a lungo e non sempre andava a buon fine, specie se l’animale era di indole ribelle. Una volta costituita una compagnia, gli Orsanti percorrevano l’Europa su uno o più carri. L’ingresso in una nuova città era preceduto da un banditore, membro della compagnia, che ne preannunciava l’arrivo. Questi attirava l’attenzione suonando un tamburo e esprimendosi in un linguaggio che fosse il più possibile comprensibile al popolo. E' probabile che, abituati a viaggiare, i girovaghi valtaresi fossero praticamente “poliglotti”. Per quanto riguarda le mete preferite dei nostri girovaghi, possiamo ricordare la Francia, la Germania, l’impero austro-ungarico, ma anche l’Africa settentrionale, il Medio-oriente, la Russia. Dovunque essi giungevano, comunque, venivano accolti festosamente. I loro spettacoli riscuotevano grande successo.

È difficile descrivere uno spettacolo-tipo. Comunque, tra i “numeri” più famosi, e di sicuro effetto, vi era, ad esempio, il ballo dell’orso. L’orso, le cui fauci erano prudentemente serrate con una museruola, veniva condotto in scena da un ammaestratore, e lì avanzava reggendosi sulle zampe posteriori ed appoggiandosi ad un bastone. Al suono di una musica particolare, poi, ballava goffamente, saltellando sulle zampe e scuotendo un tamburello o dei campanelli. Un altro “numero” molto applaudito era la lotta con l’orso. L’abilità dell’uomo stava nel soccombere, in apparenza, agli assalti del plantigrade, prima di sconfiggerlo alla fine di un’aspra contesa. Lo spettacolo, ovviamente, era rigorosamente “truccato”: per sconfiggere l’orso, infatti, bastava solleticarlo in alcuni punti sensibili del corpo. L’orso era senza dubbio la principale, ma non certo l’unica, attrattiva dello spettacolo. Si potevano ammirare anche animali “matematici”, cavalli “astrologi”. C’era, infatti, il cavallo che sapeva contare con lo zoccolo anteriore, o sapeva riconoscere, tra i presenti, “il maggior bevitore, il capo del villaggio, la donna più bella”; la capra agilissima che saltava a quattro zampe sul collo di una damigiana. I cani e le scimmiette, “vestiti con divise dai colori vivaci e dai bottoni d’oro, oppure con tutù e cappellini alla moda” svolgevano altri giochi. Il cammello fa arrampicare i ragazzi e fa fare loro un giro della piazza. Al termine dello spettacolo i domatori facevano passare “un bambino o un cane con in bocca un piattino a raccogliere le offerte”.
Col passare degli anni, alcuni conduttori di compagnie, i più audaci, i più coraggiosi, ampliarono i loro gruppi, acquistando un sempre maggior numero di animali e coinvolgendo molte altre persone, fino a costituire dei veri e propri circhi equestri. I più famosi della zona di Bedonia furono i circhi gestiti dalle famiglie Cappellini, Volpi, Chiappari e Bernabò. 


Massimo Beccarelli



Le notizie riportate in questo articolo sono in larga parte tratte dal libro “Con arte e con inganno. L'emigrazione girovaga nell'Appennino ligure-emiliano” di Marco Porcella (Genova, Sagep, 1998).

Chi fosse interessato, può leggere anche il libro "Orsanti" di Arturo Curà (http://www.booksprintedizioni.it/libro/Racconto/orsanti)
oppure visitare il "Museo degli Orsanti" che si trova a Compiano (PR) (http://wmuseogliorsanti.it/ )

lunedì 9 settembre 2013

Quegli hashtag culturali che "durano" nel tempo...












Non è la prima volta che, sulle pagine di questo blog,  si parla dell'utilizzo degli hashtag su twitter. Abbiamo sostenuto, e lo sosteniamo tuttora, che possano essere utilissimi per diffondere e condividere cultura sui social network. Negli ultimi tempi siamo stati testimoni di un cambiamento.
Abituati a trovare tra gli argomenti più popolari i soliti e onnipresenti cantanti, attori, politici, ci siamo stupiti nel trovare più volte tra i Trending Topics (cioè tra gli argomenti che fanno tendenza) hashtag di carattere culturale, come #classicidaleggere (di mia invenzione) o #primalettura (idea dell'Agenzia letteraria "Sul Romanzo"), per fare solo alcuni esempi. Altrettanto stupore desta in me, ormai da qualche mese, l'interesse sollevato dall'hashtag #iversicheamo (da me lanciato a giugno), che continua ad essere frequentato e utilizzato da molte persone. E' questo l'aspetto che volevo mettere in luce, quello della "durata". Di solito twitter "brucia" gli argomenti di tendenza nel giro di pochi giorni, se non di una giornata. Gli utenti discutono animatamente di un fatto di attualità, scrivono migliaia di tweet, ma ben presto quell'argomento è dimenticato e si passa ad un altro, e così via. Hashtag come #iversicheamo, #twitart, #scritturebrevi, esistono da tempo e, pur non movimentando un numero così consistente di tweet al giorno, si confermano nel tempo, diventando dei veri punti di riferimento per chi cerca la cultura su Twitter. E' interessante anche il fatto che si creano, così, delle vere biblioteche virtuali, a cui l'utente può accedere, e dove può trovare gli argomenti di suo interesse: poesie, opere d'arte, consigli di lettura oppure aforismi, frasi, detti famosi (nel nuovo hashtag #liberidicitare).
                                                                                            Massimo Beccarelli

sabato 7 settembre 2013

Don Amadio Armani, sacerdote e poeta dialettale




E' passato più di mezzo secolo dalla sua morte, avvenuta il 25 settembre 1960, ma è ancora ricordato con grande affetto.  Sto parlando di don Amadio Armani, sacerdote molto amato dalla popolazione di Borgotaro e famoso poeta dialettale. Al momento della morte, aveva 75 anni. Si legge su “Voce del Taro” del 30 ottobre 1960: “Nato a Borgotaro […] mons. Armani era assai noto per il suo fare faceto e bonario e per la sua grande umiltà che risaltava soprattutto allorchè si prodigava nel fare il bene. Chi lo ha conosciuto da vicino, sa qual fosse il suo grande cuore e come ebbe sempre come primo ideale della sua vita sacerdotale il far del bene senza riserve”. 

Borgotarese di nascita, don Amadio aveva svolto il suo servizio sacerdotale per lungo tempo lontano dal suo paese di origine. Si legge poco oltre: “Solo quando le fatiche ebbero consunto la sua forte fibra, a malincuore lasciò la sua parrocchia di S. Sepolcro di Piacenza, ove aveva lavorato intensamente per 29 anni, cedendola per la prosecuzione del ministero apostolico ai Sacerdoti Salesiani”. E così, si era ritirato nella sua Borgotaro, “che Egli tanto amò e che tante volte, per la sua «verve» poetica dialettale descrisse nelle persone, negli usi e nelle tradizioni”. Le sue poesie più belle furono in seguito raccolte nel libro “la fizunumia dal Burgu”, ormai purtroppo esaurito, e che sarebbe opportuno ristampare in nuova edizione. In quegli anni, colse tanti aspetti caratteristici dei borgotaresi, come lo stretto legame che li unisce, il saper gioire delle gioie dell’altro, ma anche il saper piangere insieme nelle occasioni luttuose e nelle sofferenze che costellano la vita di ognuno. A questo proposito, don Armadio scrisse: “gh’è tra niètri una bèla cadèina ch’ha n’tegna int’un grüpu ligà, un dulur’, una festa d’voin, a s’ sèinta p’r tütu ar Cumoin”. Per i suoi versi, don Amadio è notissimo al Borgo ancora oggi, e le sue poesie in dialetto burg’zan si ascoltano spesso negli spettacoli dei bambini al Teatro Farnese, o vengono lette e recitate in varie altre occasioni. Sono ormai entrate nel bagaglio culturale e tradizionale del nostro paese, tanto che a volte l’autore non viene neppure citato.
Ma altre cose vanno dette a proposito di don Amadio. Non tutti sanno, ad esempio, che, nel corso della Prima Guerra Mondiale, egli fu anche un fedele servitore della patria: “fu compagno di trincea ed amico dell’eroico Enrico Toti, di cui conservava gelosamente una rara foto”. Il romano Enrico Toti, bersagliere, amputato di una gamba, fu protagonista di un episodio memorabile, che gli valse poi la medaglia d’oro al valor militare: ferito a morte, scagliò la stampella contro il nemico. La vicenda, nota a intere generazioni di studenti del passato, è oggi, purtroppo, raramente menzionata nelle aule scolastiche.


Don Amadio, infine, fu molto attento anche all’educazione dei giovani e, prima di abbandonare la parrocchia di San Sepolcro di Piacenza, dove aveva svolto il suo ministero per ben 29 anni, volle lasciare ai suoi parrocchiani un ultimo “regalo”. Si legge sempre in “Voce del Taro”: “Con grandi sacrifici aveva acquistato locali e terreno per la costruzione di un oratorio per la gioventù” che fu poi completato con “l’intervento dell’Autorità Diocesana”.
                                                                                                                              
Massimo Beccarelli

sabato 31 agosto 2013

Monete romane ritrovate in Valtaro



Sfogliando le pagine dell'archivio di “Voce del Taro”, bollettino della parrocchia di Borgotaro, spesso capita di incontrare notizie interessanti e curiose. Sul numero del 25 giugno 1959 si trova un articolo intitolato “Le monete d'argento trovate a Borgotaro”.

Lasciamo la parola all'autore del pezzo, che si firma CAM: “un cantiere che stava costruendo la strada di allacciamento della frazione di S. Vincenzo alla provinciale del Brattello era impegnato in un boschetto scosceso e per aprire un varco nella roccia affiorante erano state fatte brillare alcune mine”. Chi conosce il territorio della frazione di San Vincenzo ha ben presente l'asperità del terreno e può facilmente comprendere le difficoltà che avranno incontrato i cantieristi in quel lavoro. L'ingente quantità di pietrisco di scarto che si era ottenuta a seguito dell'esplosione, era stata gettata nella scarpata a valle dei lavori.


Proprio all'interno di questo materiale di scarto, “una pioggia abbondante ha messo in luce tre monetine d'argento raccolte dal vice istruttore del cantiere, Giuseppe Ferrari”. Quelle prime monete, trovate casualmente, non erano le sole. Infatti, controlli più accurati, eseguiti “nella semioscurità della notte di luna [...] per non destare curiosità dannose, hanno permesso il ricupero di altre due monete d'argento”. Ulteriori due furono rinvenute poco lontano in un'altra occasione e infine, afferma il redattore dell'articolo “corre voce di un ritrovamento notevole avvenuto una ventina d'anno or sono”.
Come spiegare la presenza di tali monete proprio in quel luogo? L'autore dell'articolo ha provato a dare una spiegazione. Per prima cosa bisogna partire, a suo dire, dall'antico nome che aveva la località del ritrovamento: “Con l'aiuto del parroco don Carlo Seghini è stato possibile rintracciare nell'archivio della canonica un'antica denominazione della località del ritrovamento, in un documento che data al 1500: <<Canale dei morti>>”. Poiché è da escludere che si possa far riferimento a un cimitero di età medievale, visto che all'epoca vi era l'abitudine di seppellire i morti nelle vicinanze delle chiese, potrebbe trattarsi, sostiene l'autore, di una di quelle denominazioni, lasciate dalla tradizione, del tempo in cui i Romani erano impegnati in aspre campagne contro i Liguri. Considerato che, un centinaio di metri più a monte, transitava una antica strada sicuramente romana “che molto facilmente collegava Velleja con la Val di Magra”, non è da escludere che i superstiti di una colonna in transito “abbiano dato sepoltura alle vittime di un'imboscata tesa in un punto oltremodo favorevole all'agguato”. Tutto ciò, direte voi, non spiega affatto la presenza delle antiche monete in quel luogo. Per comprendere meglio, infatti, è necessario aggiungere ancora un tassello alla nostra ricostruzione. Va ricordata, infatti, sottolinea l'articolista, “l'antica usanza di tumulare i morti con oggetti di corredo e monete”. Ovviamente quella presentata è una teoria ipotetica, e non sappiamo quanto sia rispondente alla realtà.
Per concludere, una breve descrizione delle monete rinvenute a San Vincenzo. In una di esse “è rappresentata la Dea Roma [...] nell'altra faccia si nota la quadriga guidata da Giove, nella seconda un trofeo di vittoria”. Poiché le monete ritrovate erano in argento, l'autore dell'articolo provava a datarle all'età della Repubblica Romana (tra il 268 e il 48 a.c.), in quanto quelle più antiche erano composte di solo rame e bronzo.


Massimo Beccarelli

giovedì 22 agosto 2013

L'istruzione a Borgotaro al tempo dell'Unità d'Italia



Com'era la situazione dell'istruzione a Borgotaro negli anni subito successivi all'Unità d'Italia? Qualche tempo fa, mi è capitato di imbattermi in un libro intitolato “Vescovi, clero e cura pastorale: studi sulla diocesi di Parma alla fine dell'Ottocento”, di Angelo Manfredi e Giacomo Martina, all'interno del quale è possibile leggere un'interessante lettera che ci informa proprio sullo stato dell'istruzione a Borgotaro in quegli anni. Tale lettera è la relazione che il Sottoprefetto di Borgotaro invia al Prefetto di Parma l'11 febbraio 1865 e tratta dei Seminari e delle scuole della Val di Taro. Una relazione, a dir la verità, non proprio lusinghiera.
Leggiamo: “Si scorge a prima vista, che le condizioni dell'Istruzione pubblica non sono niente affatto floride. Imperocchè in una popolazione di 30 mila abitanti, non contasi che 615 studenti: fra i quali 211 sono da ascriversi alla Carriera ecclesiastica”. Un terzo degli studenti, dunque, proseguiva gli studi in ambito religioso. La cosa desta stupore nel redattore della lettera, tanto più che lo stesso avviene per gli insegnanti che “sono 55 in tutto, e fra questi havvene 36 preti” (ossia 36 sono preti).

Inoltre, afferma il Sottoprefetto: “L'istruzione che questi insegnanti ecclesiastici impartiscono agli scolari è insufficiente, informata al vecchio metodo e piena di massime non unisone al progresso dell'epoca”. In alcune zone, inoltre, alcuni ordini di scuola sono persino assenti: “Se si eccettui Borgotaro, negli altri comuni non esistono scuole serali di sorta, ed in taluno come a Valmozzola mancano le scuole elementari”. Nel successivo passo si nota come grande fosse l'influenza, a quel tempo, degli ecclesiastici. Si legge infatti: “i Comuni volendolo sarebbero in misura di stanziare somme più elevate per l'istruzione se non chè prevale il sistema di sovvenzionare i parroci, onde diano essi ai fanciulli i primi rudimenti”. 

In seguito, si parla più diffusamente della crisi delle scuole borgotaresi: “Queste scuole sono nel totale deperimento e questo è dovuto a parer mio alla vicinanza dei Seminari, di Berceto e di Bedonia, al personale degli odierni insegnanti, all'influenza del Clero, alla poca cura, e alle ristrettezze, a dir meglio alle strettezze, del Municipio”. A Borgotaro era presente il Ginnasio, ma molti alunni preferivano andare a studiare nei Seminari, e non frequentavano le scuole al Borgo: “I due seminari tolgono a questo Ginnasio non meno di 200 scolari. Quello di Berceto conta 61 alunni di questo circondario - e quello di Bedonia 140”. 

Anche gli insegnanti non sembravano essere all'altezza: “I due maestri delle scuole ginnasiali Sig. Giuseppe Pettinati e Pietro Corsi son due giovani di buona volontà. Ma un po' troppo attaccati al sistema antico di insegnamento e mancano di quella energia che è propria di chi fa la scuola più per inclinazione che per bisogno”.

In un passo successivo della lettera, si fa accenno alle condizioni igieniche precarie delle scuole del tempo, di cui si incolpa il Comune: “Chi entra nel locale delle scuole ha subito un'idea della cura che vi prende il Municipio. Nell'atrio tutti gli inquilini portano le immondezze delle loro stanze, sicchè ha l'aspetto di immondezzajo piucchè l'ingresso ad un comunale stabilimento”. Anche le pareti delle aule scolastiche “da tanti anni non imbiancate, e bruttamente lordate, appena sarebbero tollerate in un carcere mandamentale”. 

L'autore della lettera conclude affermando che “sembrerà a prima giunta troppo fosco un tal quadro paragonandolo in ispecie ai ridenti colori con cui è piaciuto ad altri dipingerlo”. 

Questo ultimo passo credo sia piuttosto significativo. Il Sottoprefetto, autore di questa lettera, ammette che altri avevano parlato in modo ben diverso dell'istruzione in Valtaro. Forse le cose non andavano così male come descritto in questa lettera, o forse l'autore si è soffermato più sugli aspetti negativi che non su quelli positivi. Comunque sia, il quadro che emerge fa riflettere sull'arretratezza delle scuole borgotaresi dell'800.

Massimo Beccarelli

Caro Twitter ti scrivo: Vogliamo #CulturanegliAccountPopolari

Chi usa twitter da un po' di tempo sa che, nella barra in alto, cliccando su Scopri, si trovano alcuni suggerimenti sull'uso dello strumento. Ad esempio si possono trovare i tweet più popolari, l'Attività svolta, consigli su chi seguire o su come trovare i propri amici. In fondo a questa lista si trovano gli Account Popolari.

martedì 13 agosto 2013

L'hashtag #classicidaleggere tra i più popolari d'Italia



Qualche mese fa, avevo affidato a questo blog alcune riflessioni sull'utilizzo degli hashtag su twitter e delle loro potenzialità nel diffondere e condividere cultura. In quell'occasione avevo parlato di #iversicheamo e #ilibricheamo, che avevo lanciato alla metà di giugno e avevano riscosso un discreto successo.
In particolare il primo, che a distanza di due mesi è ancora attivo e vitale ed è seguito da un buon numero di persone. In seguito, altri utenti, ispirandosi al mio esempio, avevano lanciato: #iquadricheamo #iluoghicheamo #ifilmcheamo.
Ieri, parlando con un'amica su twitter, questa mi invitava a lanciare un hashtag nuovo, che potesse valorizzare i libri classici. Ho così pensato di lanciare #classicidaleggere, perchè la formula caratterizzata dal #cheamo finale mi sembrava ormai troppo sfruttata e non andasse più bene. 
Il nuovo hashtag ha riscosso subito, e sta ancora riscuotendo, un notevole apprezzamento. Basti dire che, dalla mattina del 13 agosto, si è piazzato stabilmente tra i primi 5 cinque hashtag che fanno Tendenza in Italia, toccando anche, in alcuni momenti della giornata, il 1° posto.
Non è poco, se si considera che doveva competere con alcuni hashtag molto popolari, legati, per fare un esempio, al cantante Justin Bieber o a Emma Marrone. E' anche la dimostrazione che ci sono ancora moltissime persone appassionate di libri e lettura e questo ci fa ben sperare per il futuro.

                                                                                           

sabato 10 agosto 2013

Il mistero della statua della Madonna del Carmine




Molti borgotaresi hanno, nella propria casa, una bella immagine della Madonna del Carmine che sembra risalire al ‘700. Si tratta di una litografia il cui tratto grafico, raffinato ed estremamente armonioso, crea particolari giochi di luce e di ombra che danno l’illusione della tridimensionalità. L’immagine però è molto diversa dalla statua della Madonna del Carmine che siamo soliti vedere esposta sul presbiterio in occasione della sagra. Sembra trattarsi proprio di un’altra statua. Vien da chiedersi se questa statua sia veramente esistita oppure sia una rappresentazione ideale della Madonna, visto che non ne abbiamo più notizia.
La questione ci ha incuriosito, e abbiamo provato a ragionarci un po’ su.
Dunque, abbiamo questa immagine della Madonna che sembra raffigurare una statua che non esiste più. Il primo dubbio che ci è venuto è stato: siamo proprio sicuri che questa statua scomparsa venisse venerata nella nostra chiesa? Il cartiglio sotto i piedi della Vergine non sembra lasciare dubbi: “Vera effigie della miracolosa statua di Nostra Signora del Carmine, che si venera in Val di Taro, nella chiesa di S. Antonino Martire”. Altra questione: si tratta di una rappresentazione ideale o reale della Madonna? Non lo sappiamo. Però il fatto che il cartiglio posto sotto i suoi piedi dica “vera effigie”, cioè vera immagine, è un indizio interessante. Perché l’autore della litografia avrebbe scritto “vera immagine di Nostra Signora del Carmine” venerata nella chiesa di S. Antonino, se si fosse trattato di una immagine ideale? La cosa non avrebbe avuto senso, soprattutto agli occhi dei suoi contemporanei.
Resta in piedi il problema più grosso, e apparentemente senza soluzione.
Poniamo pure che la statua fosse veramente esistita. Che fine ha fatto?
Abbiamo provato a fare qualche modesta ricerca e sono uscite alcune notizie interessanti che riguardano una statua della Madonna del Carmine.
Don Gian Francesco Varsi, parroco di Pontolo dal 1781 al 1816, racconta nel suo Censuale di un particolare fenomeno atmosferico verificatosi a Borgotaro nel maggio 1798: “un gran fulmine veduto da qualcuno spiccarsi dalla parte di S. Rocco in forma di una tavola infuocata quale spezzatasi in tre parti diede fieri colpi alla torre di S. Antonino, scompaginò il perfetto orologio, entrò in Chiesa in cui ruppe tutte le vetriate… involò gli abitini alla B.V. del Carmine, squarciò un pezzo di muro sopra l’Ancona del Crocifisso” (Domenico Ponzini, Pontolo e il territorio di Borgotaro nel Censuale di D. Gian Francesco Varsi, Piacenza, Tep, 1994; p. 167) “Involare” significa propriamente ‘rubare’, ‘portar via’.
Il fulmine, colpendo la statua, avrebbe sostanzialmente strappato gli abitini della Madonna, ma non sembra aver provocato altri danni, altrimenti è lecito credere che Don Varsi ci avrebbe avvertito.
Facciamo un salto di una quarantina d’anni e scopriamo che nel 1834-35 un forte terremoto colpisce la valtaro. Ne parla diffusamente il senatore Primo Lagasi in un suo libro, citando la cronaca fatta dall’allora parroco di Pieve di Campi. In un passaggio si parla dei danni provocati alla chiesa di S. Antonino di Borgotaro: “Anche questa chiesa e canonica soffrirono varie crepulature e caddero a terra diverse pianne dai tetti della canonica e della chiesa. Una statuetta di gesso rappresentante la Madonna del Carmine che era in chiesa in cima al Battistero precipitò dall’alto e andò in pezzi”. (Primo Lagasi, Il mio paese dal 1806 al 1933, Roma, Tipografia del Senato, 1933; p.123)
Non sappiamo se si tratta proprio della statua scomparsa di cui ci siamo occupati in questo articolo, e forse non lo sapremo mai. Però l’ipotesi è suggestiva. 





sabato 3 agosto 2013

“La vita in un profumo, verde speranza” di Miriam Scotti




E' stato presentato oggi a Borgotaro, sotto i portici della Biblioteca Manara, il libro “La vita in un profumo, verde speranza” di Miriam Scotti. L'autrice del romanzo, vent'anni, fidentina d'adozione, era accompagnata da don Amos Aimi, parroco di Bastelli e archivista della Curia Vescovile di Fidenza.
“La vita in un profumo, verde speranza”, è un breve romanzo scritto con uno stile molto originale: una narrazione fatta di frasi e periodi brevi, diretti, immediati.
Racconta le vicende di Jessica, una ragazza, un'adolescente di oggi...
Il romanzo si apre con la morte di Luigi, il nonno della protagonista.
Un uomo di grande personalità, che aveva rivestito importanti cariche professionali e culturali, rimanendo però profondamente umile: “Il nonno era il punto di riferimento, la fonte della vita, l'unico uomo, marito e papà perfetto sulla terra”. Sono momenti di profondo dolore, di scoramento... si rischia di finire travolti dai ricordi dell'infanzia, dai momenti felici trascorsi insieme, che non ritorneranno.



Massimo Beccarelli e Miriam Scotti
Si legge poco oltre: “Il tempo passa, la cicatrice resta, ma la fede la monda, lenisce il dolore”. Una fede, quella di Jessica, che non l'abbandona mai, e che fa da sottofondo a tutta la vicenda. Una fede silenziosa, non urlata, eppur presente, che si manifesta ad esempio nella devozione alla Chiesa di Bastelli di Fidenza e nell'impegno nell'organizzazione della Festa in onore di Sant'Anna.
Col passare del tempo, Jessica ha l'impressione che il nonno la guidi, le resti accanto.
Si legge nel libro: “Ogni volta che faccio colazione, risento il suo profumo” (cioè il profumo del suo dopobarba).
Questo passo è importante, perchè porta alla luce uno degli elementi chiave del romanzo: Il profumo. Il profumo della vita, il profumo del dopobarba del nonno che, quasi magicamente, l'accompagnerà e, alla fine, ritornerà... nel profumo del piccolo nipotino Enrico Luigi, figlio del fratello.
Altro elemento chiave del romanzo è l'amore. L'amore per i famigliari, anzitutto, ma anche l'amore per Francesco, un ragazzo conosciuto per caso e che la travolgerà in una passione a tratti coinvolgente, a tratti contrastata, piena di dubbi. Vengono alla mente le parole del poeta Vincenzo Cardarelli che, parlando di un caso analogo, userà queste parole: “L'amore, sul nascere, ha di questi improvvisi pentimenti”...
Comunque, nelle pagine centrali del romanzo, le dinamiche dell'amore giovanile vengono descritte con grande perizia, nei dettagli, regalando alcuni dei passi più belli e più veri del libro; passi da cui emerge anche la passione letteraria dell'autrice, prima di tutto per Dante, che viene anche citato, ma anche per Leopardi, di cui si trova traccia in certe scelte lessicali (nell'uso di parole come dolore, illusioni, rimembrare).
L'ultimo aspetto del romanzo che voglio segnalare è la ricorrenza di un colore, il verde, che fin dal titolo richiama la speranza: la passerella verde smeraldo delle sfilate da miss, i prati verdi di Bastelli, il camice verde indossato in ospedale.
Una speranza e un ottimismo che, per concludere, si concretizzano in un inno alla vita, con la nascita del nipotino Enrico Luigi.
                                                                                                                                  
                                                                                                                                  




giovedì 25 luglio 2013

Alla ricerca di un posto nuovo per... l'Arco Bertucci

Borgotaro, Arco Bertucci



Il settecentesco Arco Bertucci, situato a Borgotaro nell'odierna Piazza Farnese, era la porta monumentale di ingresso al podere dei Conti Bertucci, che possedevano un grande vigneto che da lì si estendeva fino al fiume Varacola. Su di esso campeggia l'iscrizione latina: “Doctor Alexander Primo Bertuccius Anno Christi Ortus Posuit Sept. Post Saecla Decemq.”, che tradotta in italiano significa “Il Dottor Alessandro Bertucci, nell'anno primo dopo diciassette secoli dalla nascita di Cristo, pose (cioè eresse)”. Consultando l'archivio di Voce del Taro, e in particolare gli articoli pubblicati 50 anni fa, ci siamo imbattuti in un pezzo dedicato all'Arco Bertucci, e in particolare alle accese discussioni che in quegli anni si facevano, tra la popolazione, sulla possibilità di spostarlo in un altro luogo del paese, cercando un posto nuovo che fosse adatto “per un arco antico”.
L'articolo, firmato CAM, è datato 26 marzo 1961. Lasciamo la parola all'autore: “Accanto a villette moderne, alla vetrina di un nuovo garage che espone le ultime linee delle automobili e delle motociclette, c'è un arco vetusto del 1700, in pietra arenaria ancora solido e robusto, nella parte centrale, e un po' malandato ai lati. Quello che più colpisce è la mancanza di una sua giustificazione, isolato com'è in quell'angolo della piazza”. Ci si chiedeva quindi se non fosse il caso di spostarlo altrove, in un luogo che potesse valorizzarlo al meglio. Tanto più che esso era, all'epoca, “di proprietà del sig. Cacchioli”, il quale allora si era detto “ben lieto di poter spostare il monumento in un'altra parte del paese”.
L'articolo proseguiva elencando i vari luoghi dove sarebbe stato possibile “trasferire” l'arco: “C'è chi lo vedrebbe di buon occhio all'ingresso dei Giardini Pubblici (IV Novembre), ma la sua mole è tale che oltre a rendere dubbia dal lato estetico la soluzione, comporterebbe l'eliminazione di circa quattro dei grossi tigli, che costituiscono uno dei maggiori pregi cittadini, durante l'estate”.
Un'altra proposta “sarebbe quella di dislocarlo nel viale di mezzo dei tre che formano viale Bottego, ma la larghezza dell'arco è tale da farla scartare a priori”. Qualcuno aveva pensato di collocarlo “a Porta Portello, sul rettifilo che parte dal ponte di San Rocco e sarebbe un bel colpo d'occhio per chi arriva in paese. Ma sarebbe necessario spostare la pesa pubblica, non solo, ma l'arco recherebbe un sicuro impedimento al traffico”. L'ultimo progetto, “cui accordiamo la nostra fiducia”, - scriveva CAM - “è quello che lo vorrebbe sistemato in uno dei tanti ingressi al giardino Duca d'Aosta” (si tratta dei “giardini piccoli” o ortu d'l' mun'gh' ). “In questo parco […] si trova già un monumento antico, quello ad Elisabetta Farnese, di stile sobrio e perfettamente intonato, se non altro per la pietra comune usata dallo scultore. Si tratta di vedere il punto migliore che dia, col monumento posto al centro, il miglior colpo d'occhio, ma si può stare sicuri che l'armonia e il senso estetico rimarrebbero appagati”.





giovedì 18 luglio 2013

L'esploratore Vittorio Bottego e... Borgotaro





Tra gli illustri personaggi storici di origini valtaresi, uno dei più conosciuti è senza dubbio Vittorio Bottego. Suo padre Agostino, infatti, era un medico condotto originario della zona di Albareto. Quando Vittorio nasce però, l'11 agosto 1860, il padre si era già trasferito altrove, a San Lazzaro Parmense. Dopo aver iniziato gli studi a Parma, Vittorio si iscrisse all'Accademia militare di Modena, prima di frequentare la scuola di applicazione di artiglieria e genio a Torino e la scuola di applicazione di Pinerolo. Ne uscì ufficiale di Cavalleria. Nel 1887, non ancora trentenne, chiese ed ottenne di far parte del corpo di spedizione in Eritrea. In Africa iniziò le sue ricerche di carattere etnografico e geografico.

L'interessante materiale che raccoglieva lo inviava al Museo di Storia Naturale di Parma. Nel 1890 progettò un programma di esplorazione di alcune zone della Somalia, allora ancora sconosciute. La caduta del governo dell'epoca, però, gli impedì di proseguire.

Nel 1891 fu la volta dell'Eritrea meridionale. Mentre attraversava il tratto Massaua-Assab, primo tra gli europei, ancora una volta gli fu ordinato di ritornare.

Nel 1892 Bottego organizzò una spedizione più impegnativa che prevedeva l'esplorazione del fiume Giuba, che nasce in Etiopia e attraversa la Somalia. Il viaggio avvenne sotto gli auspici della Società Geografica Italiana, con l'autorizzazione e il concorso del Governo e quello personale del Re. L'avventurosa risalita verso le sorgenti del Giuba, nonostante gli assalti delle popolazioni locali e l'impervia natura del suolo, si concluse vittoriosamente, nel marzo 1893. Si penetrò anche nella misteriosa città di Lugh, fino allora considerata inaccessibile. Un interessante resoconto di questa esperienza fu affidato da Bottego al libro “Il Giuba Esplorato”, che forniva interessanti elementi geografico-scientifici agli studiosi.

Rientrato in Italia, fu accolto da festeggiamenti ed onori, ma egli aveva già in mente un'altra impresa, se possibile ancora più ardua e difficile. Già nel 1894 stilò un preciso programma di esplorazione per chiarire alcuni aspetti ancora sconosciuti della regione che si estendeva tra l'Alto Giuba e il lago Rodolfo e, in particolare, quelli relativi al corso del fiume Omo. Questa volta si sarebbe potuto avvalere del supporto di valenti specialisti, geografi, naturalisti, fotografi.

Nel luglio 1895 era già a Massaua, per preparare la spedizione che sarebbe partita nel mese di ottobre. Raggiunto il lago Pagadè, che ribattezzò Margherita, proseguì fino a raggiungere il fiume Omo, di cui poi seguì il corso sino alla foce, accertandosi del fatto che si immettesse nel lago Rodolfo. In seguito percorse anche le rive del lago, per accertarsi che non avesse alcun emissario. A dicembre 1896 prese la via del ritorno, ignorando però l'avvenuta crisi dei rapporti tra italiani ed etiopi, e nulla sapendo della sanguinosa battaglia di Adua, che aveva visto la disfatta delle truppe italiane. Così, la spedizione cadde in un'imboscata tesa dagli abissini a Daga Roba. Bottego non volle cedere le armi e tentò di aprirsi la strada con la forza, ma venne annientato dalle soverchianti forze nemiche. Morì nello scontro. Era il 17 marzo 1897. Non aveva ancora compiuto 37 anni.

Le vicende biografiche di questo personaggio, che abbiamo ricordato brevemente, sono piuttosto note. Forse non tutti sanno, però, che c'è un episodio che lega Vittorio Bottego a Borgotaro. Non si tratta, in questo caso, di spedizioni o di ricerche geografiche, ma di vicende di carattere... politico. Alcuni storici del passato hanno infatti sostenuto che, nel 1895, Bottego volle candidarsi nel Collegio di Borgotaro alle elezioni politiche, cercando di sfruttare la popolarità di cui godeva per essere eletto, ma che aveva fatto un buco nell'acqua. In verità, fu lui a rifiutare l'offerta. Lo spiega in una lettera inviata alla “Gazzetta di Parma” in data 17 aprile 1895: “Egregio Signor Direttore, da Borgotaro mi fu, senza alcuna mia intromissione, offerta la candidatura di quel Collegio con un indirizzo portante le firme di 41 influenti elettori, fra cui parecchie autorità. Potrò sempre provare che il signor Piatti non avrebbe accettata quella candidatura, se io non avessi rinunciato, perchè, appunto lui, per primo, aveva messo avanti il mio nome”.