giovedì 13 dicembre 2018

Giacomo Puccini, un anniversario e quattro curiosità




Nasceva 160 anni fa a Lucca, proprio nel mese di dicembre, uno dei più famosi e amati compositori operistici italiani: Giacomo Puccini.
Amante della caccia, delle automobili e delle donne, Puccini fu un vero bohémien, vero interprete della società del suo tempo. Amato, ma non da tutti, spesso messo in competizione con Giuseppe Verdi, Puccini fu una personalità straordinaria, capace di ispirarsi alla cultura musicale europea più innovativa, guardando a Wagner, a Massenet, a Bizet, ma capace di rinnovare la tradizione operistica italiana in modo originale, anche nella scelta delle ambientazioni, spesso ispirate alle tradizioni di popoli lontani, come la Cina di Turandot, il Giappone della Madama Butterfly o il Far West della coraggiosa Fanciulla del West. Questo senza tralasciare la vecchia Europa, ambientando a Parigi Manon Lescaut e la Bohème, e a Roma la Tosca.

Prima curiosità: il suo vero nome era Giacomo Antonio Domenico Michele Secondo Maria Puccini. La cosa deve avere provocato qualche stupore, quando all’anagrafe di Lucca venne battezzato con tutti i nomi dei suoi antenati, dal trisnonno al padre.

Nel 1886, non ancora trentenne, Puccini iniziò a frequentare Elvira Bonturi, già sposata con un commerciante di Lucca e madre di due figli. Questo non gli impedì di coltivare il loro amore e di scappare a Monza con lei. Da Elvira ebbe il figlio Antonio. Quando rimase vedova, nel 1904, finalmente i due si sposarono. Donna di temperamento e molto gelosa, fu per Puccini un vero punto di riferimento. 
Ed ecco la seconda curiosità: Secondo Giampaolo Rugarli (autore del volume “La divina Elvira”, edito da Marsilio) a Elvira sono ispirate tutte le immortali eroine delle opere pucciniane: da Mimì a Liu, a Tosca, alla gelida Turandot.
Puccini, però, non amava solo le donne e la musica; un altro suo grande amore era quello per la velocità. Quando cominciò ad avere successo, e quindi ebbe una buona disponibilità economica, iniziò ad acquistare numerose auto, che però guidava talvolta in modo un po' spericolato. Nel 1903 ebbe un rovinoso incidente: a bordo dell’auto c’erano la moglie, il figlio e il meccanico, che non subirono gravi danni, mentre il compositore si fratturò una gamba. 

Ed ecco una terza curiosità, questa volta legata ai motori: Puccini sarebbe l' “inventore” del primo fuoristrada: infatti per meglio raggiungere i luoghi impervi dove amava andare a caccia si fece costruire da Vincenzo Lancia una vettura prototipo caratterizzata da un telaio rinforzato e da ruote artigliate. Il prezzo, di 35.000 lire, era astronomico per l'epoca, ma non per lui.

Quarta ed ultima curiosità, a Giacomo Puccini è dedicato anche il Cratere Puccini che si trova sul pianeta Mercurio.


martedì 11 dicembre 2018

I grandi incipit della letteratura: "La luna e i falò" di Cesare Pavese





Cari amici, l'incipit che voglio presentarvi oggi è tratto da "La luna e i falò" (1950), capolavoro di Cesare Pavese (1908-1950).
La scelta di questo romanzo è legata al fatto che rappresenta, secondo diversi critici, il suo testamento spirituale, visto che precede di poco la tragica conclusione della sua vita, a cui pose fine con il suicidio. L'ambiente è quello delle Langhe, quella parte del Piemonte a cui Pavese è rimasto legato fin dai tempi dell'infanzia. Il protagonista del romanzo è un emigrante che, dopo essere tornato dall'America, ripercorre le vie di quel paese che ha conosciuto da ragazzo e scopre che tante cose sono cambiate, tranne appunto il paesaggio e Nuto, un vecchio amico con cui ama ricordare il passato. Mentre i ricordi si susseguono nella sua mente, nuovi falò vengono a testimoniare la disperazione del presente. 

Ha scritto Leone Piccioni, cogliendo appieno molti aspetti centrali del romanzo: "La luna e i falò [...] porta al massimo sviluppo ed al coronamento una serie di temi del più valido repertorio di Pavese: dal tema del "ritorno" alla attività, perspicua e duplice, della memoria, [...] dal favoleggiare su paesaggi e figure, alla concreta immediatezza umana. Nell'ultima parte del romanzo, di questo suo vero congedo, arriva al più definitivo chiarimento del suo percorso narrativo, aggredendo naturalmente, e facilmente, il tono della poesia". Spero di avervi invogliato alla lettura del romanzo. Eccovi l'incipit.



Incipit di "La luna e i falò"



C'è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c'è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch'io possa dire "Ecco cos'ero prima di nascere". Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi. 
La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un cavagno da vendemmia due povere donne da Monticello, da Neive o perché no da Cravanzana. 
Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione.
Se sono cresciuto in questo paese, devo dir grazie alla Virgilia, a Padrino, tutta gente che non c'è più, anche se loro mi hanno preso e allevato soltanto perché l'ospedale di Alessandria gli passava la mesata. Su queste colline quarant'anni fa c'erano dei dannati che per vedere uno scudo d'argento si caricavano un bastardo dell'ospedale, oltre ai figli che avevano già. 
C'era chi prendeva una bambina per averci poi la servetta e comandarla meglio; la Virgilia volle me perché di figlie ne aveva già due, e quando fossi un po' cresciuto speravano di aggiustarsi in una grossa cascina e lavorare tutti quanti e star bene.
Io venni su con le ragazze, ci rubavamo la polenta, dormivamo sullo stesso saccone, Angiolina la maggiore aveva un anno più di me; e soltanto a dieci anni, nell'inverno quando morì la Virgilia, seppi per caso che non ero suo fratello. 
Adesso sapevo ch'eravamo dei miserabili, perché soltanto i miserabili allevano i bastardi dell'ospedale. Prima, quando correndo a scuola gli altri mi dicevano bastardo, io credevo che fosse un nome come vigliacco o vagabondo e rispondevo per le rime. 
Ma ero già un ragazzo fatto e il municipio non ci pagava più lo scudo, che io ancora non avevo ben capito che non essere figlio di Padrino e della Virgilia voleva dire non essere nato in Gaminella, non essere sbucato da sotto i noccioli o dall'orecchio della nostra capra come le ragazze.

lunedì 10 dicembre 2018

I due fantasmi del castello di Torrechiara


Il castello quattrocentesco di Torrechiara (PR), meta turistica tra le più amate e conosciute del territorio parmense, ospiterebbe, secondo la tradizione, misteriose presenze.
Fatto costruire tra il 1448 e il 1460 dal conte Pier Maria II de' Rossi con scopi di carattere difensivo, è fortificato con una triplice cinta muraria e quattro torri angolari collegate da cortine merlate. Il castello fu anche il nido d'amore del conte e della giovane da lui amata, Bianca Pellegrini. 
Nunc et semper
I due amanti, pur essendo entrambi già sposati, vissero la loro relazione alla luce del sole. Il castello ospita, tra le altre cose, la bellissima “Camera d'oro”, affrescata probabilmente dal pittore Benedetto Bembo e molte raffigurazioni, fortemente simboliche, trattano proprio dell'amore del conte per Bianca, affrontato secondo i rituali dell'amore cavalleresco. La denominazione della camera era proprio dovuta all'oro zecchino che un tempo rivestiva le formelle in terracotta delle pareti. Sulla parete campeggia un nastro che lega i due cuori intrecciati con le iniziali di Bianca e Pier Maria. Sul nastro, la scritta dedicata all'amata: “Nunc et semper” (ora e sempre).
All'interno del maniero, ormai anziano, Pier Maria morì nel 1482.
Pier Maria Rossi
Uno dei due fantasmi, che pare ancora oggi aggirarsi intorno alle mura del castello, sarebbe proprio quello di Pier Maria. Chi dice di averlo visto sostiene di aver incontrato un uomo anziano, dall'aspetto nobile e altero, vestito con gli abiti quattrocenteschi. Il fantasma non li avrebbe spaventati, anzi lo hanno descritto come un'anima errante, sconsolata e piangente. Si incontrerebbe sul Rio delle Favole, lungo la strada che conduce all'ingresso del castello, e ripeterebbe il motto dedicato all'amata: “Nunc et semper”.
L'altro fantasma sarebbe quello di una donna di incantevole bellezza. Chi sostiene di averla vista, afferma di averla incontrata sul lato est del maniero, dove apparirebbe nelle notti di plenilunio al calar della nebbia. Si dice che sia una duchessa murata viva dallo sposo nelle cantine della Rocca. A differenza del primo fantasma, questa sarebbe un'anima allegra e appassionata, a tal punto da offrire baci agli uomini che la incontrano, forse per vendicarsi del marito assassino.
Sarà vero? Non resta che fare un salto a Torrechiara e dare un'occhiata!

D'altronde, ogni castello che si rispetti ha il suo fantasma... o no?

domenica 9 dicembre 2018

L'assedio di Parma (1247) e la sconfitta di Federico II



Federico II di Svevia


C'è un evento della storia medievale che ha visto Parma protagonista decisiva della storia dell'epoca. Siamo nel 1247 e, ormai da decenni, brillava la stella di Federico II di Svevia (1194-1250). Imperatore del Sacro Romano Impero, re di Germania e di Sicilia, Federico non ha bisogno di presentazioni per chi conosce un po' la storia. Uomo dalle straordinarie doti militari e umane, parlava sei lingue ed era soprannominato “stupor mundi” (meraviglia del mondo). Amante della cultura e della poesia, cosa rarissima per l'epoca, aveva promosso lo sviluppo della Scuola poetica siciliana, tra i primi esempi in assoluto di poesia in volgare, ed era poeta egli stesso. Aveva una particolare predilezione per la terra di Sicilia, che lo aveva portato a trasferire lì la sua corte. 
Amore per la cultura e la poesia, però, che non deve far pensare che si trattasse di un sovrano debole o incapace di gestire il regno. Tutt'altro, visto che Federico sapeva essere forte e crudele, all'occorrenza, quando si trattava di gestire il potere o reprimere le ribellioni o le rivolte che rischiavano di mettere in dubbio la sua autorità. 
Federico II
Parma, ben presto, avrebbe conosciuto il volto più duro e spietato di Federico. La città, che era sempre stata tradizionalmente di fede Ghibellina, e quindi fedele all'imperatore, lo aveva tradito, e si era schierata decisamente dalla parte Guelfa. Era papa, allora, Innocenzo IV. 
Federico II non era certo tipo da tollerare simili prese di posizione e, ben presto, ordinò di sferrare un attacco contro la città, rea di tradimento. Siamo nel giugno 1247, e Parma venne cinta d'assedio dalle truppe imperiali. Si prospettava un assedio lungo e doloroso, portato avanti con l'obiettivo di obbligare la città alla resa per fame e per sete. 
Non c'era neppure bisogno di rischiare le truppe impegnandole in uno scontro aperto. Prima o poi la città si sarebbe arresa e, a quel punto, sarebbe stata distrutta e rasa al suolo. Federico era così sicuro dell'esito dell'assedio da aver già fondato una nuova città per sostituirla, che si sarebbe chiamata “Vittoria”. 
Federico, tranquillo come non mai del successo, trovava anche il tempo per dilettarsi con la sua più grande passione, quella della Falconeria, ossia della caccia col falcone. Aveva anche scritto un famoso trattato sul tema, “De arte venandi cum avibus”. Non si aspettava di certo quello che sarebbe accaduto a breve. 
Falconeria, o caccia col falcone
Era il 18 febbraio del 1248 e pare che Federico fosse ancora una volta impegnato nella caccia col falcone nella Valle del Taro. 
D'altronde, chi avrebbe mai potuto pensare che ci fosse pericolo alcuno? I parmigiani erano ormai allo stremo. Eppure, accadde l'impensabile. L'intero popolo, compresi gli anziani, le donne e i bambini, si unirono ai soldati e tentarono una sortita disperata. Non c'era altro da fare; l'alternativa era la morte tra gli stenti. Fatto sta che l'esercito imperiale, privo di guida, si fece cogliere di sorpresa, e venne messo in fuga. La nuova città di Vittoria venne distrutta e Federico II si accorse di quanto accaduto solo vedendo le colonne di fumo alzarsi di lontano. Egli fuggì nella fedele Borgo san Donnino (oggi Fidenza) e poi a Cremona. 

Concludo con una curiosità. Federico, a Parma, non perse solo la battaglia. Scrive Corrado Augias nel libro “I segreti d'Italia”, che “i parmigiani s'impossessarono del suo harem che lo seguiva ovunque, spartendosi le trecento concubine che ospitava. Erano arrivate a Palermo da tutta Europa le concubine dell'imperatore; finirono a Parma”. 








lunedì 3 dicembre 2018

Poesia in musica: "Emozioni" di Lucio Battisti




La poesia è sempre meno letta, la poesia è in crisi? 
Quante volte abbiamo sentito queste domande ricorrenti e abbiamo provato a rispondere di no, che non è vero, che la poesia è più viva che mai! Però è anche vero che, quando proviamo a citare una poesia, ci vengono sempre in mente i poeti classici, italiani o stranieri, ma pur sempre classici. Sono pochi gli autori contemporanei che ricordiamo, e sono ancora meno i libri di poesia completi che abbiamo letto negli ultimi anni. Eppure il desiderio di poesia è innato, è parte di noi. Forse, il bisogno di poesia è stato in parte sostituito dai testi dei cantautori che, in taluni casi, hanno fornito un valido sostituto alla poesia tradizionale. Ne abbiamo già parlato sul blog e oggi voglio riprendere il tema proponendovi una canzone-poesia di Lucio Battisti e Mogol: "Emozioni". Vi propongo il testo e la musica. Buon ascolto e buona lettura!
P.S. Se poi l'argomento vi interessa, ecco i link alle altre canzoni proposte sul blog: L'anno che verrà, Avrai, Caruso, Amore che vieni, amore che vai...


Emozioni (Mogol-Battisti)

Seguir con gli occhi un airone sopra il fiume 
e poi ritrovarsi a volare
e sdraiarsi felice sopra l'erba ad ascoltare
un sottile dispiacere.
E di notte passare con lo sguardo la collina per scoprire dove il sole va a dormire.
Domandarsi perché quando cade la tristezza
in fondo al cuore
come la neve non fa rumore,
e guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere se poi è tanto difficile morire.
E stringere le mani per fermare qualcosa che
è dentro me, ma nella mente tua non c'è...

Capire tu non puoi
tu chiamale, se vuoi emozioni
tu chiamale, se vuoi emozioni

Uscir nella brughiera di mattina
dove non si vede a un passo
per ritrovar se stesso.
Parlar del più e del meno con un pescatore
per ore e ore
Per non sentir che dentro qualcosa muore...
e ricoprir di terra una piantina verde
sperando possa nascere un giorno una rosa rossa.

E prendere a pugni un uomo, solo perché è stato un po' scortese
sapendo che quel che brucia non son le offese
e chiudere gli occhi per fermare qualcosa che
è dentro me, ma nella mente tua non c'è...
Capire tu non puoi
Tu chiamale, se vuoi emozioni
Tu chiamale, se vuoi emozioni.


martedì 27 novembre 2018

Curiosità cinematografiche: il misterioso protagonista di “Nosferatu”




Gli appassionati di cinema horror, di vampiri e di cinema in generale, ricordano senz'altro la figura scheletrica del conte Graf Orlok, protagonista del film “Nosferatu” (1922) del regista F.W. Murnau, uno dei più famosi film espressionisti.
Come noto, gli attori dell'epoca compensavano la mancanza di sonoro con una mimica esagerata ma evocativa e, nel caso in questione, il pesante trucco e gli sguardi sconvolti, spesso fissi nella telecamera, creano un'atmosfera già di per sé opprimente e ansiogena. I giochi di ombre disegnano una realtà al limite dell'incubo, al cui interno si muove la figura del conte, inquietante quanto basta ancora oggi, che ha contribuito non poco al successo del film. “Ripugnante, scheletrico, con le mani adunche e gli occhi cerchiati, il cranio calvo e a punta, le orecchie pipistrellesche sormontate da piccoli ciuffi di pelo”. Così lo descrive Fabio Giovannini ne “Il libro dei vampiri: dal mito di Dracula alla presenza quotidiana” (edizioni Dedalo). In un altro passo di questo interessante volume, Giovannini ci informa su di un altro mistero che circonda, da sempre, la figura del conte. Chi è l'attore che lo interpreta?
I cartelloni del 1922 riportano il nome di Max Schreck che però, tradotto, significa “Massimo Terrore”. Un nome che fa storcere il naso a molti. Possibile che il protagonista di un film sul vampiro Nosferatu si chiami proprio così?
“E' vero”, prosegue Giovannini, “esisteva un attore tedesco con questo nome, morto nel 1936 con decine di film al suo attivo, ma i più maliziosi fecero subito circolare il pettegolezzo (mai confermato) che, sotto le spoglie del vampiro, si celasse lo stesso regista Murnau”. Chi aveva ragione dunque?
Il regista F.W. Murnau
“Ad aggiungere confusione ci pensò poi Edgar G. Ulmer dichiarando, quarant'anni dopo, a “Midi - Minuit Fantastique” che il Nosferatu era interpretato dallo sceneggiatore Hans Ramo”. In conclusione, il mistero rimane. Resta solo da ricordare l'ultima delle voci che circolarono negli anni seguenti, ovvero quella più inverosimile, secondo cui il protagonista di “Nosferatu” sarebbe stato un vero vampiro. Questa ipotesi non la commentiamo neppure. Certamente, tutte le vicende descritte hanno contribuito non poco al successo di una pellicola modernissima per l'epoca, che risulta, anche senza avere a disposizione nessun effetto speciale, piuttosto inquietante ancora oggi.
Spero questo argomento vi abbia incuriosito.
A presto amici!


domenica 25 novembre 2018

I grandi Incipit della letteratura: "Moby Dick" di Herman Melville





Cari amici del “Lettore”, oggi voglio proporvi un nuovo Incipit letterario; anche in questo caso si tratta di un capolavoro della letteratura, che non può mancare nel nostro personale elenco di #classicidaleggere. Si tratta di “Moby Dick” di Herman Melville. Il romanzo, pubblicato nel 1851, ebbe scarsissimo successo e fu un fallimento dal punto vista economico, tanto che alla morte di Melville si calcola che ne fossero state vendute solo 3000 copie. Riscoperto negli anni venti del '900, ha conosciuto un successo che non tramonta.
La vicenda, molto difficile da riassumere in poche battute, vede come protagonista il comandante Achab e la sua nave baleniera, il Pequod, che va a caccia di balene e capodogli, in particolare dell'enorme balena bianca, Moby Dick, appunto, verso cui il comandante nutre un enorme sentimento di vendetta. Il libro non è soltanto fatto di avventure sul mare, ma è ricco di riflessioni filosofiche, scientifiche e religiose, affidate al narratore Ismaele, alter ego dell'autore. Il viaggio, con le paure e i timori che lo accompagnano, è infatti anche un'allegoria della condizione umana.
Concludo con una curiosità: Moby Dick è realmente esistita? Pare che Melville, nella stesura del romanzo, si sia ispirato a un articolo di Jeremiah Reynold intitolato “Mocha Dick: or the White Whale of the Pacific”, pubblicato nel maggio 1839 sul “Knickerbocker Magazine”. Vi si raccontava della cattura di un'enorme balena che terrorizzava i balenieri nella prima metà dell'800. Il nome “Mocha Dick” era legato al fatto che era stata avvistata più volte vicino all'isola di Mocha, in Cile. Quando fu uccisa, al largo delle coste brasiliane, le furono trovati in corpo 19 arpioni, a testimonianza dei tanti tentativi di assalto falliti delle navi baleniere.
Ma ora veniamo all'Incipit. Buona lettura!


Incipit di “Moby Dick” – Herman Melville


Chiamatemi Ismaele.
Qualche anno fa - non importa ch'io vi dica quanti - avendo poco o punto denaro in tasca e niente che particolarmente m'interessasse a terra, pensai di mettermi a navigare per un po', e di vedere così la parte acquea del mondo. Faccio in questo modo, io, per cacciar la malinconia e regolare la circolazione. Ogniqualvolta mi accorgo di mettere il muso; ogniqualvolta giunge sull'anima mia un umido e piovoso novembre; ogniqualvolta mi sorprendo fermo, senza volerlo, dinanzi alle agenzie di pompe funebri o pronto a far da coda a ogni funerale che incontro; e specialmente ogniqualvolta l'umor nero mi invade a tal punto che soltanto un saldo principio morale può trattenermi dall'andare per le vie col deliberato e metodico proposito di togliere il cappello di testa alla gente - allora reputo sia giunto per me il momento di prendere al più presto il mare. Questo è il sostituto che io trovo a pistola e pallottola. Con un ghirigoro filosofico Catone si getta sulla spada; io, quietamente, mi imbarco. Non c'è niente di straordinario in questo. Basterebbe che lo conoscessero appena un poco, e quasi tutti gli uomini, una volta o l'altra, ciascuno a suo modo, si accorgerebbero di nutrire per l'oceano su per giù gli stessi sentimenti miei.






martedì 20 novembre 2018

I racconti di don Elio Sidoli: il vecchio mulino





Sono passati 25 anni dalla morte di don Elio Sidoli, parroco in Val Vona di Borgotaro. Anche se dire solo “parroco”, nel suo caso, è veramente riduttivo. Don Elio fu anche docente, intellettuale e scrittore. Proprio in quest'ultima veste, di straordinario narratore, lo voglio ricordare su queste pagine, presentandovi un suo racconto apparso all'epoca su “Voce del Taro”. Un racconto che indulgeva un po' al macabro e al mistero. Spero sia di vostro interesse. Il racconto è tratto dal libro "I racconti di don Elio" (Ass. Emmanueli), una pubblicazione locale da tempo, purtroppo, esaurita. Forse meriterebbe la ristampa. A presto!


Il vecchio mulino


Ero stato a visitare un ammalato e ritornavo stanco verso questo piccolo paese dove curo le anime di questi scarsi viventi. O cerco di curarle, almeno. Ormai cadeva la sera e io affrettavo il passo per poter passare, prima che scendesse la notte, vicino al mulino maledetto. Tutti qui lo chiamano così. È una vecchia bicocca, mezzo diroccata, piantata a sbilenco in un canale fra due rocce scoscese.
Quando la gente passa in quei dipressi, allunga il passo e si fa il segno della croce. Se qualcuno è costretto a passarvi di notte, e succede di rado, si conduce appresso un cane o qualche altra persona. Un vecchio solo abita in questa vecchia rovina. Un vecchio dal viso arcigno e incartapecorito, con una grande massa di capelli bianchi, sempre scompigliati come quelli di una furia.
Qui la gente giura che è diventato bianco in una notte. 
Strane storie si raccontano di lui, ma questa me l’ha raccontata egli stesso. Stavo ritornando, come dicevo, verso casa, quando ad una svolta, sopra il mulino, trovai il vecchio. Era seduto sopra un sasso e si reggeva la testa con le mani.
“Buona sera” dissi io.
E l’altro grugnì qualche cosa che non riuscii ad afferrare. Mi fermai e quello diede in una risata isterica come quella di un pazzo. Rimasi un poco meravigliato e quello cominciò a fissarmi.
“Mi avevano detto che aveva del fegato, lei - cominciò - ma io non ci credo. L’ho visto correre mentre passava vicino al mulino. O di che ha paura? Lei ora è morta, anche se tutte le notti mi tormenta. Ma questi sono affari nostri”.
Rimise la testa fra le mani e cadde in silenzio. Ormai la curiosità cominciava ad impadronirsi di me, mi sedetti anch’io e per un poco nessuno parlò. Poi fu lui ad incominciare.
“Lei crede agli spiriti? Voglio dire crede che un morto possa tornare?”
La sua voce portata dal vento della sera sembrava che venisse da altri mondi. Era una voce cavernosa, ma vorrei dire quasi affascinante.
“Mi dirà di no” proseguì il vecchio. “Ebbene mi stia a sentire. Qui tutti lo sanno come è andata. È una storia vecchia: per questo quando passano vicino al mulino si fanno il segno. E d’altra parte è vero. Lei era paralitica e urlava sempre. Io lavoravo tutto il giorno fra quelle urla e di notte andavo a dormire lontano. Ma sentivo sempre quella voce che veniva dall’inferno. Venti anni non sono un giorno, e ormai sentivo che sarei impazzito. Cominciai a pensare…
Lei mi capisce. Divenne un’ossessione. Sentivo che ormai ci sarei arrivato in qualche modo, che era inevitabile. Il maligno, ormai, mi aveva avvinto.
Una notte si quetò. Dormivo in una capanna in mezzo al bosco e ad un tratto le sue urla cessarono. Faceva così di tanto in tanto quando si assopiva per poco. L’ora della mia maledizione era suonata. Piangevo mentre andavo verso casa tenendo fra le mani una piccola cordicella, ma ormai era scritto che fosse così. Si era assopita e per me era un gioco da ragazzini. Nessuno disse quello che tutti sapevano. Fu portata al cimitero, e solo allora mentre essa scendeva sotto terra capii che ero perduto. Il prete disse le preghiere, la gente gettò una manciata di terra sopra la bara e buona notte al secchio.
Questo è successo dodici anni fa. La notte dopo il funerale dormii già nel mulino: non nella sua camera no, ma giù vicino alle macine con il capo appoggiato ai sacchi di farina. Lei ora dormiva sotto terra e non urlava più, ma io la sentivo lo stesso. Era passata una settimana circa dal fatto, quando una notte scoppiò una tempesta orribile. Una notte di tregenda. Chi si fosse avventurato fuori avrebbe sentito laggiù nella landa la voce rauca degli spiriti maligni che intessono i loro amori. Sembrava il finimondo. Ora lei non crederà a quello che io le dico, ma non importa. Ad un tratto sentii delle urla: il terrore della morte mi invase l’anima. Sentii la sua voce stridula perdersi e ritornare come prima, come quando era qui. Ero impazzito: balzai alla finestra e la vidi al chiarore sinistro di una saetta, la vidi laggiù nella landa. Era come di fuoco, gridava e attorno al collo aveva quella piccola cordicella. Era il demonio che ritornava. Vede i miei capelli? Il terrore di quella notte li ha imbiancati. Così tutte le notti di tempesta, quando si scatena una bufera, la morte mi invade l’anima perché so che ritornerà. So che le mie orecchie sentiranno ancora la sua voce agghiacciante laggiù nella landa. Sempre così. Vede quindi che i morti ritornano qualche volta, specie quando hanno avuto una cordicella appesa al collo”.
Questo il racconto del vecchio. Mentre raccontava questi orrori non si scompose: solamente a tratti sembrava che dai suoi occhi uscissero dei bagliori sinistri. Ormai era calata la notte, una notte nera come la pece. Non riuscivo più nemmeno a distinguere il vecchio anche se me lo sentivo vicino.
“Qualche volta - disse concludendo - forse finirà anche per me. Forse presto. Ora lo accompagno per un poco, ma potrebbe andare tranquillo in ogni modo, tanto non verrà stanotte. E poi ripeto sono affari nostri”.
Ora del vecchio riuscivo a distinguere solo gli occhi: due occhi rossi come due tizzoni. Avevo paura ma non tanto. Mi accompagnò per un pezzo di strada ma non disse più parola. Solo quando mi apparvero le finestre illuminate della mia casa mi lasciò.
“Buona notte - disse lui - e dimentichi quello che le ho confidato: tanto…”
“Sono affari vostri” dissi io.
Egli non rispose e ritornò sui suoi passi. Fu l’ultima volta che lo vidi. Due anni dopo in una notte di tempesta il vecchio mulino diroccò e rimase solo un mucchio di rovine. Lavorarono parecchi giorni per trovare il corpo del vecchio, ma inutilmente. Mentre scavavano intorno alla macina grossa, provai a girare un poco. In fondo, laggiù vicino al lago, il vecchio era disteso bocconi a terra già in decomposizione. Aveva in mano una piccola cordicella e il suo viso sembrava che sorridesse di un sorriso di vittoria.

Don Elio Sidoli



lunedì 19 novembre 2018

Quinto Sertorio, storia del romano che sfidò Roma





Non conoscevo la vicenda umana di Quinto Sertorio, oratore e condottiero vissuto in anni complessi e delicatissimi della Repubblica romana. Sono un appassionato di storia romana da sempre ma, come noto, i grandi perdenti e i ribelli vengono spesso dimenticati. Sembra un luogo comune, ma non lo è più di tanto: la storia la scrivono i vincenti.
Mi sono trovato fra le mani un libro avvincente, una biografia, o per meglio dire un'autobiografia, di un personaggio straordinario. Poche pagine di antefatto ci raccontano dell'arrivo a corte di Plutarco, lo scrittore sublime delle “Vite parallele”, convocato dall'imperatore Traiano. L'occasione è il ritrovamento di documenti vergati di suo pugno da Sertorio, appunto, ossia la sua autobiografia. “Per certi aspetti ricorda i Commentarii di Cesare, per altri se ne discosta del tutto. Nel rifiuto della impersonalità, per esempio. Sertorio rigetta l'uso cesariano della terza persona. Parla in prima. Il vero protagonista è il suo ego”. L'autore di questo “Le pergamene di Sertorio” (edizioni Spartaco), è Nelson Martinico, che si dimostra assolutamente a suo agio, alternando gli aspetti storici a quelli romanzeschi. Un affresco avvincente, come dicevo prima, che ci accompagna lungo anni turbolenti della storia romana. Sono gli anni di poco seguenti all'opera rivoluzionaria dei Gracchi, che ha lasciato non pochi strascichi nella civiltà del tempo. All'orizzonte ci sono grandi sconvolgimenti, esterni ed interni. Nemici pericolosi all'esterno, come Giugurta o i Cimbri e i Teutoni, e figure destinate a contendersi il potere a Roma, come Caio Mario e Lucio Cornelio Silla.
Una società romana sempre più turpe e corrotta, mossa dalla sete di potere e di denaro, oltre che dal desiderio di soddisfare i piaceri immediati del corpo. Sertorio attraverserà questa storia coprendosi di gloria e dimostrando straordinarie capacità militari, che gli costeranno anche la perdita di un occhio. Non riuscirà mai, però, a entrare in sintonia con il Senato romano, con gli ottimati, che gli rinfacceranno sempre le origini popolari. “Eris sutor”, sarai un calzolaio, l'anagramma del suo nome, che lo perseguiterà a lungo, nonostante quel “sutor” avesse anche altre accezioni, come “inventore” o “compositore”. Sarà amato in Gallia Cisalpina, ma soprattutto venerato in Hispania, dove è ancora oggi considerato un eroe nazionale.
Un romanzo gradevolissimo, soprattutto per chi conosce un po' la storia romana, condito di espressioni e tradizioni del tempo, che emergono nel corso della vicenda. Si pensi solo all'esperienza delle lezioni scolastiche che si tenevano nelle strade.
Divertente, poi, è l'apparire all'orizzonte del racconto di tanti personaggi storici, delineati con una certa ironia, spesso avvalendosi di riferimenti noti o meno noti alle loro vicende storiche. Gustosissima è l'apparizione di Cicerone, ad esempio, che nel romanzo è semplicemente il giovane Marco Tullio, soldato piuttosto incapace che, condannato a morte con Sertorio, riesce a far rimandare l'esecuzione con un piccolo discorso dove, guarda caso, usa la formula che lo renderà famoso nell'orazione contro Catilina: “Quo usque tandem... fino a che punto abuserai della pazienza degli Dei, o Lupo?”
E che dire del giovane Giulio Cesare che, sprezzante, riesce a farsi liberare dalla prigionia presso i pirati proprio da Sertorio? Sertorio gli riserverà un pronostico non proprio fausto: “il vaticinio anagrammato dà Idus Martiae... non so cosa significhi, ma guardati dalle Idi di marzo, Cesare”.
Quinto Sertorio, amatissimo dai popoli delle province, non riuscirà mai ad instaurare buoni rapporti con i capi romani del tempo. Sarà in buoni rapporti solo con Caio Mario ma, alla morte di quest'ultimo, l'imporsi di Lucio Cornelio Silla farà precipitare le cose. 
Giulio Cesare interpretato da Alain Delon
Odiato dagli ottimati e mal tollerato persino dai popolari, riparerà nella sua amata Hispania, da cui tenterà un'impresa disperata, la ribellione a Roma stessa. Acclamato dal popolo come un nuovo Annibale o un nuovo Viriato, darà ai suoi uomini usi e tradizioni romane, al fine di sconfiggere il morbo della corruzione che stava distruggendo Roma dall'interno. Dopo aver inferto gravissimi danni agli eserciti di Metello e Pompeo, sarà sconfitto solo con il tradimento.
Il giovane Giulio Cesare, quasi ricambiando il pronostico, lo aveva avvertito “Non è armando eserciti di provinciali, di ispanici, che si sconfigge la corruzione. Roma non si abbatte dall'esterno. Il tuo progetto è titanico. Impossibile.”


giovedì 8 novembre 2018

Da Instagram alla dipendenza da internet, passando per Twitter: un mese di "Letture Social"




Nel mese di ottobre ho pubblicato diversi pezzi su "Letture social", il blog che curo per il sito de L'Espresso. Come sempre, ho affrontato tematiche largamente legate ai social network e alla rete. In particolare mi sono concentrato su aspetti in parte negativi dei social e di internet. 
Instagram, ad esempio, presenta diverse contraddizioni, come il fatto di promuovere un ideale di bellezza irraggiungibile. Dilaga poi, negli ultimi tempi, il fenomeno della dipendenza da internet, come illustrato da un recente sondaggio. 
Il web è un luogo pericoloso anche per chi fa semplici ricerche su google. Si può incappare in Virus e malware anche solo cercando il nome delle celebrità che amiamo. Quali sono quelle più pericolose?
Per quanto riguarda Twitter, ultimamente ha implementato nuove funzioni: l'ho provato per voi!



Vi allego i link. Buona lettura!


                          Le contraddizioni di Instagram, social network del momento.


Una generazione sempre
connessa: dilaga la dipendenza da internet







Sbircia la nuova versione di Twitter












Non googlate quel nome: le celebrità più pericoloso del web






martedì 6 novembre 2018

Il cacciatore di sogni, l'ideatore del vaccino anti-polio




“Albert Sabin è stato il mio eroe ed è per questo che ho voluto raccontare la sua vita nella veste che merita, quella di una storia per ragazzi, perchè “il cacciatore di sogni” ha tanto da insegnarci, ancora oggi”. Così scrive Sara Rattaro, autrice del libro di cui vi voglio parlare oggi, ossia “Il cacciatore di sogni”, edito da Mondadori (2017).
Un libro che ci ricorda, una volta di più, l'importanza dei vaccini e, in questo caso, di quello contro la poliomielite, malattia che ha continuato a colpire pesantemente la popolazione, provocando gravi paralisi o la morte, fino al 1950, anno in cui si è giunti alla preparazione dei primi vaccini, i cosiddetti vaccini di Koprowski, prima, e di Salk poi, fino a giungere infine a quello di Sabin, di cui si parla in questo libro.

Sara Rattaro
Un libro pensato per gli adolescenti, ma di gradevole lettura anche per gli adulti, che dà voce ad un ragazzo che racconta, in prima persona. E' il 4 luglio 1984. La noia dell'attesa per l'imbarco aereo si dirada all'irrompere di una notizia inattesa ed elettrizzante: Diego Armando Maradona, vero fenomeno del calcio anni '80, avrebbe viaggiato sul loro stesso aereo. Il giorno successivo, infatti, sarebbe stato presentato al San Paolo di Napoli, ai suoi nuovi tifosi. Quel giorno la vita di Luca, che da grande sogna di diventare pianista, cambia per sempre. “Oh, mio Dio! Ma quello è Maradona!”
L'incontro importante e significativo, però, è un altro, e avviene senza tanti clamori, ed è quello con un misterioso signore di nome Bruce che comincia a raccontargli una storia, quella di “un ragazzino nato cieco da un occhio, che ha salvato il mondo”.
E' la storia di Albert, nato in Polonia nel 1906, in una città che, nel corso della 1^ Guerra Mondiale, subirà i bombardamenti e l'occupazione tedesca. Le tante famiglie ebree, e anche quella di Albert, subiranno diverse angherie dagli occupanti tedeschi. La famiglia di Albert, infine, sceglierà di emigrare negli USA. E' il 1921.
Sulla nave, nel corso di una traversata durata un mese, Albert incontra un signore che sta leggendo un libro dal titolo emblematico: “Microbe hunters” (cacciatori di microbi). E' la storia di Robert Koch, Louis Pasteur, Ronald Ross e William Park, e della loro lotta contro malattie come la tubercolosi, il colera, la malaria e la difterite.
Fin da quel momento, Albert Sabin capì che essere uno scienziato sarebbe stato il suo destino, e che avrebbe dedicato la sua vita alla cura delle malattie più insidiose.
Ben presto, con l'appoggio determinante di William Park, riuscirà ad ottenere una borsa di studio e una piccola stanza dove soggiornare. Dopo essersi laureato brillantemente nel 1931, ottenne uno stage presso il prestigioso Bellevue di New York. “Il destino volle che proprio in quei mesi scoppiasse una vera e propria epidemia di quella che venne chiamata “poliomielite”, una malattia, causata da un virus, tra le più terribili che la storia dell'uomo ricordi e che procurava febbri improvvise accompagnate da terribili dolori ai muscoli che iniziavano a paralizzarsi”.
Albert Sabin
E il destino volle anche che Albert fosse lì, nel laboratorio più importante al mondo, sotto gli occhi del maggior esperto mondiale in materia. Pochi mesi prima il dottor Claus Jungeblut, docente di Batteriologia alla Columbia University, aveva pubblicato un accurato studio scientifico sul virus e sulle reazioni delle scimmie all'infezione. Se fosse stato replicabile anche sull'uomo, ci sarebbero state ottime probabilità di capire come combattere la malattia. Su ordine di William Park, Sabin ripetè l'esperimento di Jungeblut, scoprendo che l'illustre scienziato aveva sbagliato e compiuto alcuni errori di valutazione. Da quel momento Albert potè dedicarsi alla ricerca di un vaccino, che riuscì a preparare tra il 1954 e il 1955. In quegli anni, tuttavia, era già utilizzato il vaccino di Salk e il vaccino di Sabin si diffuse soprattutto nei paesi dell'est europeo e in Russia, ma non negli USA. Il crescente successo del vaccino di Sabin, che era di più facile somministrazione rispetto a quello di Salk, e immune da pericoli, fece sì che anche gli USA in seguito l'adottassero, seppure con ritardo.
In Italia il vaccino anti-polio di Sabin fu autorizzato nel 1963, e reso obbligatorio nel 1966, provocando la scomparsa della malattia dal paese.
Sabin fu anche un vero e proprio filantropo, perchè non brevettò la sua invenzione, rinunciando allo sfruttamento commerciale da parte dell'industria farmaceutica. In questo modo, il prezzo contenuto del vaccino permise una sua più vasta diffusione.




martedì 30 ottobre 2018

Sui social si parla di libri: intervista a Massimo Beccarelli su "Gazzetta di Parma"



Lo scorso 15 ottobre sono stato a Parma, su invito di Andrea Violi, giornalista della “Gazzetta di Parma”, per un'intervista nella redazione di via Mantova. L'argomento dell'intervista è stata la mia attività sui social, e in particolare il lancio degli hashtag culturali che mi impegna ormai da diversi anni. Il più famoso, come molti di voi sanno, è stato #classicidaleggere, ma si possono ricordare anche #bibliotecaideale, #twittamiunlibro e tante altre proposte culturali che hanno sempre riscosso un buon gradimento tra gli utenti di twitter. Ne hanno parlato anche diversi quotidiani e settimanali nazionali, come “Il Corriere della Sera”, “Panorama” e “Vanity Fair”, oltre alla “Gazzetta di Parma” che, fin dagli inizi, ha dato risalto alle mie iniziative.
Qualcuno ha scritto che sono stato uno dei primi a “fare cultura su twitter” in Italia e, in effetti, quando ho iniziato la mia attività, erano ben pochi gli esempi analoghi in giro sul social. Oggi twitter è cambiato, e molte sono le occasioni di discussione culturale, ma mi piace pensare di essere stato un po' un precursore in questo campo. Ultimamente ho ripreso il tema dei classici, con #classicidaleggereperche, che oltre ad un elenco di titoli, aveva l'obiettivo di far riflettere sul perchè un libro classico debba essere letto o riletto nel corso della nostra vita.
Nel corso dell'intervista alla “Gazzetta” ho avuto anche l'occasione di parlare di social network e scuola, della cultura a Parma, oggi, e di un curioso cruciverba che mi ha visto protagonista. Per quest'ultimo devo ringraziare, bontà sua, Renzo Vitale, che me lo ha voluto dedicare. 

Sotto trovate il link all'intervista e all'articolo. Spero vi possa interessare! A presto!